sabato 31 gennaio 2015

PER I SEGUACI DI KASPER

LA COMUNIONE SPIRITUALE NON È UN COLPO DI SPUGNA NÉ UN ALIBI. MEMORANDUM PER I SEGUACI DELLA «LINEA KASPER»




Fra i tre paragrafi della relazione finale del Sinodo straordinario sulla famiglia, svoltosi in ottobre, che non hanno ottenuto l'approvazione dei due terzi dei padri c'è quello che riguarda la comunione spirituale per i divorziati risposati, il n. 53, che dice: «Alcuni padri hanno sostenuto che le persone divorziate e risposate o conviventi possono ricorrere fruttuosamente alla comunione spirituale. Altri padri si sono domandati perché allora non possano accedere a quella sacramentale. Viene quindi sollecitato un approfondimento della tematica in grado di far emergere la peculiarità delle due forme e la loro connessione con la teologia del matrimonio».
Dopo aver attribuito alla congregazione per la dottrina della fede e a Papa Benedetto XVI la tesi secondo cui i divorziati risposati non possono fare la comunione sacramentale ma quella spirituale sì, il cardinal Walter Kasper aveva allora obiettato: «Chi riceve la comunione spirituale è una cosa sola con Gesù Cristo. Perché, quindi, non può ricevere anche la comunione sacramentale?». In realtà Papa Joseph Ratzinger, durante l’incontro internazionale delle famiglie a Milano nel 2012 citato dal cardinal Kasper, non aveva affatto parlato della comunione spirituale come di un equivalente della comunione sacramentale. Aveva semplicemente detto che i divorziati risposati «non sono “fuori”, anche se non possono ricevere l’assoluzione e l’eucaristia. Devono vedere che anche così vivono pienamente nella Chiesa. […] Anche senza la ricezione “corporale” del sacramento, possiamo essere spiritualmente uniti a Cristo nel suo corpo». Anche nella sezione conclusiva di un suo vecchio articolo da lui completamente riscritta nel 2014 prima del sinodo, Ratzinger si è espresso in modo analogo riguardo alle «persone che vivono in un secondo matrimonio e quindi non sono ammesse alla mensa del Signore», sostenendo che «una comunione spirituale intensa con il Signore, con tutto il suo corpo, con la Chiesa, potrebbe essere per loro un'esperienza spirituale che le rafforza e le aiuta».
L'arcivescovo di Milano, il cardinale Angelo Scola, ha ripreso l'argomento alla vigilia del sinodo dello scorso ottobre, in un articolo sulla rivista di teologia Communio. Scola ha insomma incluso appunto «la comunione spirituale, cioè la pratica di comunicare con il Cristo eucaristico nella preghiera, di offrire a lui il proprio desiderio del suo corpo e sangue, assieme al dolore per gli impedimenti alla realizzazione di questo desiderio», tra i «gesti che la spiritualità tradizionale ha raccomandato come un sostegno per coloro che si trovano in situazioni che non permettono di accostarsi ai sacramenti».

È dunque, propriamente, la comunione spirituale “di desiderio” quella che è ritenuta adatta a queste persone non solo da Ratzinger e da Scola ma dalla pratica tradizionale della Chiesa cattolica.

La riprova è nel contributo dato alla discussione sinodale da un tipico esponente di questa linea pastorale come padre Carlo Buzzi, del Pontificio Istituto Missioni Estere di Milano, in una lettera dalla sua missione in Bangladesh pubblicata lo scorso maggio.

Come c'è il battesimo di desiderio per chi è impedito dal riceverlo sacramentalmente – ha scritto padre Buzzi – così ci può essere anche la comunione di desiderio, che «sembra proprio adatta per chi non è in stato di grazia e vorrebbe uscire da questo stato, ma per vari motivi non può».

Ha dunque avuto ragione, il Sinodo straordinario, a sollecitare «un approfondimento della tematica» da qui alla prossima sessione in agenda nell'ottobre del 2015, ovvero il Sinodo ordinario sulla famiglia, anche se manca qualsiasi riferimento ad essa nelle 47 domande del questionario distribuito alle conferenze episcopali.

La comunione spirituale, infatti, può essere intesa in modi diversi e quindi prestarsi ad equivoci anche gravi.

Per questo il teologo domenicano Paul Jerome Keller, docente nell’Athenaeum of Ohio di Cincinnati, haora pubblicato un testo brillante, scritto proprio per fare chiarezza su questo punto. Il contributo compare sull’ultimo numero dell’edizione inglese di Nova et Vetera, la rivista di teologia già distintasi la scorsa estate per un numero speciale dedicato ai temi del Sinodo, con otto saggi di altrettanti dotti domenicani degli Stati Uniti, tutti su posizioni alternative a quelle del cardinale Kasper.

Non inedia, ma fame
di Paul Jerome Keller O.P.

In risposta alle domande del cardinale Kasper sull'accesso alla santa comunione per i divorziati risposati, abbiamo dunque mostrato che esso non è possibile. […]

Dall'insegnamento di San Paolo fino ai nostri giorni, la tradizione della Chiesa ha insegnato costantemente la necessità per chi riceve la santa comunione di essere in stato di grazia. […] Anche se ci può essere qualche confusione circa il significato della comunione spirituale nel recente insegnamento magisteriale, rimane fermo che una vera comunione spirituale è possibile solo per chi è anche in condizione di ricevere la comunione sacramentale. […]
La Chiesa non chiede, come il cardinale Kasper sembra suggerire, che i divorziati risposati trovino la salvezza extra-sacramentalmente. Ad essi è offerta la stessa possibilità per la conversione e per la piena comunione – ecclesiale e sacramentale – che è offerta a chiunque. […] Il cardinale chiede se questa non-ricezione dell'eucaristia sia un prezzo troppo alto da pagare? La risposta a questa domanda dipende dalla volontà dell'individuo di essere conforme a Cristo. Tuttavia, dobbiamo essere chiari. Non è la Chiesa che frappone l'ostacolo alla piena comunione, ma è l'individuo che perpetua la scelta di violare il legame sacramentale del matrimonio. […]

Il cardinale Kasper pone inoltre questo diversivo: la regola della non ricezione dell'eucaristia non è forse una strumentalizzazione della persona che sta soffrendo e chiedendo aiuto, quando ne facciamo un segno e un avvertimento per gli altri? Questa domanda sottintende che la Chiesa non abbia il compito di proteggere i fedeli dalla condanna che possono attirare su di loro, come avverte San Paolo. Se infatti la Chiesa rimanesse passiva e permettesse la santa comunione a chi non fosse correttamente disposto, sarebbe essa stessa soggetta a condanna, per un diverso tipo di oppressione: l'incapacità di trattenere i suoi figli da atti illeciti e dal peccato, così come l'incapacità di custodire fedelmente e di dispensare i sacramenti. Questa plurisecolare vigilanza della Chiesa non è strumentalizzazione o manipolazione; è carità pura e semplice. È la preoccupazione della madre che i figli non ingeriscano la medicina sbagliata, affinché non diventi un veleno. […]

Non c'è nessuna strumentalizzazione della persona sofferente, sia essa il divorziato risposato o il catecumeno (che anche lui deve essere reso giusto sacramentalmente prima di ricevere la santa comunione). C'è solo la mano tesa e trafitta del Crocifisso e Risorto, il quale, tramite la Chiesa, offre la salvezza a ogni persona che sceglie di rivolgersi a Cristo, abbracciando lui solo anche nelle decisioni più difficili della vita. Egli offre continuamente il suo corpo e il suo sangue affinché tutti coloro che scelgono di indossare l'abito nuziale bianco (cfr Mt 22, 11-14; Ap 19, 8) possano accedere al suo banchetto eterno.

Esposta davanti ad ogni persona c'è la festa dell’eucaristia, offerta in modo che tutti noi possiamo sperimentare sempre di più la fame per il pane della vita, sia sacramentalmente che spiritualmente. Per ogni cristiano, il pentimento è la trasformazione dell’inedia in fame, una fame che Cristo promette di soddisfare al di là di ogni nostra immaginazione. 
http://www.iltimone.org/32574,News.html

venerdì 30 gennaio 2015

Magistero svanito

Omosessualità, il Magistero

scomparso
di Roberto Marchesini


Sono ormai moltissimi i vescovi che si sono espressi a favore delle unioni omosessuali «purché non si chiamino matrimonio». Tra le tante, ricordiamo la presa di posizione di monsignor Bruno Forte che, durante la presentazione della «Relatio post disceptationem» del recente Sinodo straordinario ha esclamato: «Non si può escludere la codificazione di diritti per le coppie omosessuali, è un discorso di civiltà!». Anche molti laici influenti hanno ammesso la possibilità di riconoscere pubblicamente le unioni omosessuali «purché non si chiamino matrimonio» e purché non si pretenda l'adozione di bambini da parte di genitori con tendenze omosessuali.

Eppure – se non m'inganno, non essendo un esperto - il Magistero si è già espresso in maniera chiara su questo tema.

Mi riferisco ad un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede intitolato Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali (clicca qui). Si tratta di un documento firmato dall'allora Prefetto della Congregazione cardinale Ratzinger, in calce al quale è posta una scritta di qualche rilievo: «Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, nell'Udienza concessa il 28 marzo 2003 al sottoscritto Cardinale Prefetto, ha approvato le presenti Considerazioni, decise nella Sessione Ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione» (scritta che non compare su ogni documento delle Congregazioni vaticane).

In questo documento la posizione della Chiesa appare nettissima: «In presenza del riconoscimento legale delle unioni omosessuali, oppure dell'equiparazione legale delle medesime al matrimonio con accesso ai diritti che sono propri di quest'ultimo, è doveroso opporsi in forma chiara e incisiva. Ci si deve astenere da qualsiasi tipo di cooperazione formale alla promulgazione o all'applicazione di leggi così gravemente ingiuste nonché, per quanto è possibile, dalla cooperazione materiale sul piano applicativo. In questa materia ognuno può rivendicare il diritto all'obiezione di coscienza» (§ 5).


A sostegno di questa affermazione vengono aggiunte diverse considerazioni di ordine relativo alla retta ragione («Lo Stato non potrebbe legalizzare queste unioni senza venire meno al dovere di promuovere e tutelare un'istituzione essenziale per il bene comune qual è il matrimonio», § 6); di ordine biologico ed antropologico («Esse [le unioni civili di persone con tendenze omosessuali] non sono in condizione di assicurare adeguatamente la procreazione e la sopravvivenza della specie umana. [...] è anche del tutto assente la dimensione coniugale, che rappresenta la forma umana ed ordinata delle relazioni sessuali. [...] l'assenza della bipolarità sessuale crea ostacoli allo sviluppo normale dei bambini eventualmente inseriti all'interno di queste unioni», § 7); di ordine sociale («Se dal punto di vista legale il matrimonio tra due persone di sesso diverso fosse solo considerato come uno dei matrimoni possibili, il concetto di matrimonio subirebbe un cambiamento radicale, con grave detrimento del bene comune», § 8);  di ordine giuridico («Poiché le coppie matrimoniali svolgono il ruolo di garantire l'ordine delle generazioni e sono quindi di eminente interesse pubblico, il diritto civile conferisce loro un riconoscimento istituzionale. Le unioni omosessuali invece non esigono una specifica attenzione da parte dell'ordinamento giuridico, perché non rivestono il suddetto ruolo per il bene comune», § 9).

La stessa cosa si potrebbe dire dell'altro tema che ha infiammato le pagine dei quotidiani durante il Sinodo (che avrebbe dovuto essere dedicato alla famiglia): la comunione ai divorziati risposati.

Anche in questo caso – sempre se non mi sbaglio - esiste una Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica circa la recezione della Comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati (clicca qui). Anche questo documento è stato stilato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede; e anche in questo caso la posizione della Chiesa appare chiarissima: «Fedele alla parola di Gesù Cristo, la Chiesa afferma di non poter riconoscere come valida una nuova unione, se era valido il precedente matrimonio. Se i divorziati si sono risposati civilmente, essi si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la legge di Dio e perciò non possono accedere alla Comunione eucaristica, per tutto il tempo che perdura tale situazione» (§ 4).

«Roma locuta, causa finita», scrisse sant'Agostino. E così si diceva fino a qualche tempo fa per indicare una semplice e chiara regola per «sentire cum ecclesia», come si esprimeva sant'Ignazio di Loyola. Eppure – a quanto pare, e come è stato spiegato da qualcuno - oggi il Magistero si aggiorna, è in continua evoluzione, recepisce i progressi della scienza, si adatta al mutare dei costumi e delle circostanze sociali.


Anche su questo modo di intendere il magistero, tuttavia, pare che la Chiesa abbia preso una netta posizione. Non faccio riferimento all'ennesimo dimenticato (o mai letto) documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, bensì alla lettera enciclica Pascendi dominici gregis (clicca qui), data da san Pio X l'8 settembre 1907 a tutti i fedeli del mondo. In questa lettera il santo Pontefice condanna – non senza una buona dose di elegante ironia – la tesi secondo la quale «Dogma, Chiesa, culto, Libri sacri, anzi la fede stessa, se non devon esser cose morte, fa mestieri che sottostiano alle leggi dell'evoluzione. [...] Lo stimolo precipuo di evoluzione del culto sarà il bisogno di adattarsi agli usi ed alle tradizioni dei popoli. [...] I dogmi e la loro evoluzione debbono accordarsi colla scienza e la storia».

Richiamando il Magistero non intendo certo calarmi indebitamente nel ruolo di teologo, ecclesiologo, canonista o storico della Chiesa (ci sarebbe solo da ridere); mi riconosco piuttosto in quel «cattolico medio» che, secondo Vittorio Messori, è «abituato a fare a meno di pensare in proprio, quanto a fede e costumi».

Mi pare però molto strano che il Magistero della Chiesa, che fino a qualche tempo fa era unanimamente considerato il faro della vita di ogni credente, sia scomparso dai dibattiti che animano la vita ecclesiale degli ultimi tempi.

giovedì 29 gennaio 2015

ALTARE - «TAVOLA DA PRANZO»

KLAUS GAMBER: DALL'ALTARE MAGGIORE ALLA «TAVOLA DA PRANZO», COSÌ SI È PERSO IL SACRIFICIO DELLA MESSA




di Klaus Gamber
Perché, come si sostiene, il carattere sacrificale della Messa sarebbe meno chiaramente espresso quando il prete è girato verso il popolo?
La domanda può essere ribaltata: dal momento che gli specialisti sanno molto bene che esaltare "l’altare rivolto al popolo" non significa richiamarsi ad una pratica della Chiesa delle origini, perché non ne traggono le inevitabili conseguenze? Perché non sopprimono i "tavoli da pranzo" eretti con una sorprendente coralità nel mondo intero? 

Molto probabilmente perché questa nuova posizione dell’altare corrisponde, meglio dell’antica, alla nuova concezione della Messa e dell’Eucaristia.  

È molto chiaro che oggigiorno si vorrebbe evitare di dare l’impressione che la "tavola santa" (come viene chiamato l’altare in Oriente) sia un altare per il sacrificio. Senza dubbio è la stessa ragione per la quale, quasi dappertutto, si pone sull’altare un mazzo di fiori (uno solo), come sulla tavola da pranzo di una famiglia in un giorno di festa, insieme a due o tre ceri: questi quasi sempre a sinistra, il vaso dal lato opposto. 

L’assenza di simmetria è voluta: non bisogna creare dei punti di riferimento centrali, come quando si mettevano i candelieri alla destra ed alla sinistra della croce che stava in mezzo; qui si tratta solo di una tavola da pranzo.

Non ci si mette dietro l’altare del sacrificio, ci si mette davanti; già il sacrificatore pagano faceva cosí, il suo sguardo era diretto verso la raffigurazione della divinità a cui si offriva il sacrificio; anche nel Tempio di Gerusalemme si faceva cosí: il sacerdote incaricato di offrire la vittima stava davanti alla "tavola del Signore", come si chiamava il grande altare dell’olocausto nel cuore del Tempio (cfr. Malachia 1, 12), e questa "tavola del Signore" era collocata di fronte al tempio interno ov’era custodita l’Arca dell’Alleanza, il Santo dei Santi, il luogo in cui dimorava l’Altissimo (cfr. Salmi 16, 15).

Un pranzo si consuma con il padre di famiglia che presiede, in seno alla cerchia famigliare; mentre invece, in tutte le religioni, esiste una apposita liturgia per il compimento del sacrificio, liturgia che prevede che il sacrificio si compia all’interno o davanti ad un santuario (che può essere anche un albero sacro): il liturgo è separato dalla folla, sta davanti ai presenti, di fronte all’altare, rivolto alla divinità. In tutti i tempi, gli uomini che hanno offerto un sacrificio si sono sempre rivolti verso colui al quale il sacrificio era diretto e non verso i partecipanti alla cerimonia.

Nel suo commento al libro dei Numeri (10, 27), Origene si fa interprete della concezione della Chiesa delle origini: "Colui che si pone dinanzi all’altare dimostra con ciò di svolgere le funzioni sacerdotali. Ora, la funzione del prete consiste nell’intercedere per i peccati del popolo". Ai giorni nostri, in cui il senso del peccato sparisce sempre piú, la concezione espressa da Origéne sembra essersi largamente perduta.

Lutero, lo si sa, ha negato il carattere sacrificale della Messa: egli non vi vedeva altro che la proclamazione della parola di Dio, seguita da una celebrazione della Cena; da qui la sua preoccupazione di vedere il liturgo rivolto verso l’assemblea. 

Certi teologi cattolici moderni non negano direttamente il carattere sacrificale della Messa, ma preferirebbero che questo passasse in secondo piano al fine di poter meglio sottolineare il carattere di pasto della celebrazione; questo, il piú delle volte, a causa di considerazioni ecumeniche a favore dei protestanti, dimenticando però che per le Chiese orientali ortodosse il carattere sacrificale della divina liturgia è un fatto indiscutibile.

Solo l’eliminazione della tavola da pranzo e il ritorno alla celebrazione all’"altar maggiore" potranno condurre ad un cambiamento nella concezione della Messa e dell’Eucaristia, e cioè alla messa intesa come atto d’adorazione e di venerazione di Dio, come atto d’azione di grazia per i suoi benefici, per la nostra salvezza e la nostra vocazione al regno celeste, e come rappresentazione mistica del sacrificio della croce del Signore. 

Questo, tuttavia, non esclude, come abbiamo visto, che la liturgia della Parola sia celebrata non all’altare, ma dal seggio o dall’ambone, com’era un tempo durante la Messa episcopale. Ma le preghiere devono essere tutte recitate in direzione dell’Oriente, e cioè in direzione dell’immagine di Cristo nell’àbside e della croce sull’altare.

Visto che durante il nostro pellegrinaggio terreno non ci è possibile contemplare tutta la grandezza del mistero celebrato, e ancor meno lo stesso Cristo, né l’"assemblea celeste", non basta parlare ininterrottamente di ciò che il sacrificio della messa ha di sublime, bisogna invece fare di tutto per mettere in evidenza, agli occhi degli uomini, la grandezza di questo sacrificio, per mezzo della stessa celebrazione e della sistemazione artistica della casa del Signore, in particolar modo dell’altare. 


Allo svolgimento della liturgia e alle immagini, si può applicare ciò che dice dei "veli sacri" lo Pseudo Dionigi l’Areopagita, nella sua opera Sui nomi divini (1, 4): questi veli "che [ancora adesso] nascondono lo spirituale nell’universo sensibile, e il sovraterreno nel terreno, che conferiscono forma e immagine a ciò che non ha né forma né immagine… Ma il giorno verrà che, essendo divenuti incorruttibili e immortali e avendo raggiunto la pace beata accanto a Cristo, saremo, come dice la Scrittura, presso il Signore (cfr. I Tessalonicesi 4, 17) tutti pieni di contemplazione per la sua apparizione visibile".   

mercoledì 28 gennaio 2015

pazzi di Cristo

SAN BASILIO

 

(Mosca - XVI sec.)


 

 


A Mosca furono numerosi i Pazzi in Cristo. Uno dei più amati fu san Basilio, soprannominato il "Camminatore Nudo", e di cui si può a tutt'oggi ammirare la Basilica sulla Piazza Rossa.

 

Amico dello Zar Ivan, nacque in un sobborgo di Mosca da genitori «poveri, onesti e pii». Fin dalla prima infanzia, diede segni, di una marcata predilezione per la dirittura, rifiutando di succhiare il seno sinistro della madre e accettando solo il destro.

 

Suo padre lo mise apprendista da un calzolaio dove rimase fino al giorno in cui un cliente venne a ordinare un paio di stivali che voleva particolarmente solidi. Il giovane apprendista sorrise. Uscito il cliente, il calzolaio, sorpreso, chiese il motivo di quel sorriso. «Ho sorriso perché quest’uomo che vuole gli stivali solidi non ne approfitterà affatto. Domani, a quest’ora, sarà morto». E infatti morì.

 

Lasciato il calzolaio, si mise a correre, svestito, per le strade di Mosca. Una icona lo presenta così, tutto nudo, e un Kontakion, cantato in chiesa nel giorno della sua festa, lo loda «per aver respinto le vesti periture ed essersi rivestito della tunica dell’immortalità».

Basilio aveva pietà di questo mondo di ciarlatani, mendicanti e disgraziati di ogni genere tra cui passava intere giornate al mercato e nelle strade.

 

Un giorno, in una taverna il cui padrone aveva l’abitudine di giurare e d’invocare il diavolo, vide entrare un uomo che si reggeva a stento sulle gambe e che chiedeva all’oste, allungando il denaro, di dargli del vino al più presto. L’oste, servendolo, gli lancia invettive e lo manda al diavolo per la sua premura. Ciò udendo I’ubriaco, prima di portare il recipiente alle labbra, fa devotamente il segno di croce. Basilio, vicino alla porta, scoppia in un riso felice. «Perché?» gli chiedono. E Basilio: «Quando l’oste ha nominato il diavolo, questi è entrato nel bicchiere e quando, prima di bere, I’ubriaco ha fatto il segno di croce, il Maligno si è precipitato fuori dalla coppa e dall’osteria. Perciò ho riso, felice di vedere il diavolo vinto dalla Croce di Nostro Signore».

 

Nel 1521 si teme una nuova invasione mongola. Basilio, in lacrime, prega tutta la notte davanti alla porta della basilica dedicata alla Dormizione della VergineAll’interno, si fa sentire un rumore assordante; fiamme appaiono alle finestre; l’icona della Madonna di Vladimir, veneratissima, si sposta e una voce annuncia che in compagnia dei santi si prepara a lasciare la città peccatrice. La notizia della visione si diffonde. Si aspetta con terrore l’avvicinarsi del nemico. Già i dintorni di Mosca sono in fiamme. Ed ecco che improvvisamente i Tartari fuggono: avrebbero visto sorgere davanti a loro una armata immensa pronta a difendere la città.

 

Basilio sa camminare sull’acqua. Una nave persiana è in difficoltà nel Mar Caspio. Ogni speranza sembra perduta, quando un russo cristiano esclama: «Noi abbiamo a Mosca un uomo di nome Basilio che cammina sull’acqua; i flutti gli sono sottomessi e la sua preghiera è possente davanti a Dio. Invochiamolo». Appena ha pronunciato queste parole, appare un uomo nudo che afferra il timone e conduce la nave in salvo. Trovandosi poi a Mosca per affari, gli stessi mercanti riconobbero il loro salvatore in un uomo nudo che incontrarono per strada: era Basilio.

 

Un giorno Basilio fa andare in collera lo Zar gettando via per tre volte la coppa di vino da lui offertagli. «Non t’inquietare», disse, «un grande incendio è scoppiato a Novgorod e io cerco di spegnerlo». Incuriosito, lo Zar manda emissari a verificare i fatti. Essi scoprono che, effettivamente, un grande incendio minacciava la città quando, secondo ciò che dicevano gli abitanti, si vide, e contemporaneamente in tutti i quartieri, un uomo nudo munito di annaffiatoio a spegnere le fiamme.

 

Ormai sul letto di morte, ecco che gli angeli vengono a cercare il Camminatore nudo. Mentre una gioia sovrumana si diffonde sul suo volto. Basilio lascia questa terra.



Tutta Mosca partecipa al funerale. Sulla sua tomba s'innalzò una chiesa. Tutta di diversi colori e a spirali, questa fantastica chiesa che adorna la Piazza Rossa è sempre stata chiamata, e lo è tutt’ora, chiesa di san Basilio, jurodivy, pazzo in Cristo, morto a Mosca nel 1552, all’età di ottantotto anni.

FUORI MODA

giornalisti brutti, sporchi e cattivi

Caro Alessandro Gnocchi,
a Manila abbiamo visto cos’è successo al momento della Comunione: le ostie passate di mano in mano tra i fedeli (alcune pare siano anche finite in terra), senza il minimo rispetto per il Corpo di Cristo. E tutto questo è accaduto in mezzo a una gran gazzarra. Uno spettacolo che mi ha fatto venir da piangere. Ricordo la domenica 3 giugno del 2012, quando Benedetto XVI celebrò la Messa all’aeroporto di Bresso, vicino a Milano. Era la giornata mondiale della famiglia, c’ero anch’io. Eravamo circa un milione, eppure al momento della Comunione tutto si era svolto in ordine, con tantissimi sacerdoti che si erano portati verso i settori in cui erano stati suddivisi i fedeli. Ogni sacerdote era assistito da un chierichetto col piattino e la Comunione veniva data in bocca. Mi viene da chiedermi: dei preti che lasciano succedere quel che è successo a Manila, credono ancora che l’ostia consacrata è corpo di Cristo, o sono lì a sbrigare una faccenda che non li interessa più di tanto? E qui vorrei anche parlare della Comunione data in mano, di tanti ministri “straordinari” che non si capisce a cosa servano, ma non vorrei dilungarmi. Le sarò davvero grato se mi dirà il suo parere. Grazie
Costanzo Scalvi

zrbrpsCaro Scalvi,
non che i giornalisti facciano male il loro mestiere o siano brutti, sporchi e cattivi.
Giornali e televisioni, per loro natura, offrono dei dati e non colgono dell' altro perché, se anche lo cogliessero, non sarebbe di rilevanza mediatica. Ma è tutt’altro che secondario, anzi è ciò che spiega certe uscite che poi fanno il giro del mondo provocando in pochi nanosecondi i danni che le care vecchie eresie di una volta producevano in decenni o in secoli.
Fa onore alla sua intelligenza e alla sua onestà cattolica il dubbio di pensare a essere lei nell’errore quando si sente turbato da certe immagini. Ma fa ancora più onore alla sua intelligenza e alla sua onestà cattolica concludere che quanto devia dalla retta fede non è giustificato o giustificabile. In una Chiesa dove la quasi totalità dei cattolici ha buttato il cervello all’ammasso, ed è passato dalla santa razionalità all’irrazionalità  nello spazio di un “Buonasera”, mantenere un corretto uso dell’intelligenza è un atto quasi eroico.
Arrivando al dunque il suo istinto, che chiamerei “sensus fidei”, le dice il vero e non è strano che la metta in guardia dalle immagini che la turbano. Se guarda con un po’ di attenzione molti ecclesiastici si mostrano rivestiti con abiti o simboli altrui, ma non vedrà mai il rappresentante di un’altra religione portare anche il più piccolo simbolo cristiano. Lo stesso schema vale quando incontro ortodossi e protestanti. In questo caso, indossano simbolicamente i paramenti altrui attraverso gesti di umiliazione che non toccano, anzi esaltano, la protagonista, ma ledono la dignità della Chiesa cattolica, Corpo Mistico di Nostro Signore.
È questo che la disturba, caro amico, così come disturba qualsiasi cattolico che vede la Chiesa fondata da Cristo ridotta all’irrilevanza nei confronti di coloro che dovrebbe conquistare all’unico vero Dio. Con simili gesti viene detto che Cristo non è più Via, Verità e Vita, ma solo un’opzione tra tante: evidentemente la più fastidiosa sulla strada che porterà all’Onu delle religioni, visto che deve essere tolta di mezzo in presenza delle altre.
I simboli trasmettono con più potenza e più efficacia il contenuto di tanti discorsi. L’elemento simbolico e quello razionale lavorano su piani diversi, ma sempre in perfetta consonanza. Il salto di livello avviene quando compare sulla scena chi ha la forza e il consenso per condensare in formule ciò che il linguaggio simbolico e quello razionale hanno diffuso per i loro canali. Lo slogan, che è un simbolo capace di usare la forma razionale della parola, per avere presa sociale ha sempre bisogno di un testimonial. Se “l’interreligiosità è una grazia”, allora tutto è compiuto. Quando lo slogan incontra una faccia, è nato qualcosa di nuovo: in questo caso la “religione dell’interreligiosità”.
Non è un caso, quindi se ciò che scandalizza il signor Scalvi, tocca così poche coscienze. Le profanazioni dell’Eucaristia, cioè le cioè le violenze sul corpo reale di Nostro Signore avvenute durante la Messa record di Manila, pare non abbiano turbato più di tanto il corpaccione della Chiesa cattolica tirato su con le vitamine dell’interreligiosità e dell’apertura al mondo. Neanche i pastori filippini si sono dati tanta pena. Forse erano impegnati a farsi qualche selfie mentre salutavano con le corna.
Eppure, caro Scalvi, lei dice che ci sono stati eventi di simili proporzioni in cui tali profanazioni sono state evitate. E si chiede se questa deriva dimostri che molti cattolici non credono più nella presenza reale di Gesù nell’Eucaristia.
Questo mi pare evidente. Se lei si mettesse in fila per la Comunione in una qualsiasi chiesa dell’orbe cattolico e ponesse la precisa domanda sulla Presenza Reale rischierebbe di contare sulle dita di una mano, forse due, coloro che le diranno convintamene di sì. Recentemente, un amico sacerdote che ha trascorso un anno in un celebre monastero del centro Italia, mi ha detto che la sua attenzione per l’Eucaristia è subito saltata agli occhi. Allora, i maggiorenti del luogo, monaci e sacerdoti, lo hanno preso da parte e gli hanno chiesto, sorridendo con compassione, se per caso non credesse ancora nella storiella della presenza di Gesù nell’ostia consacrata. Pensi a ciò che avviene quasi ovunque appena termina la Messa: una fuga generale da parte di una mandria che volta senza ritegno le spalle a Gesù nel tabernacolo. Non le dà l’idea di qualcosa che ha a che fare con i disegni del Demonio?
Caro Scalvi, in proposito mi sto facendo un’idea inquietante che penso di poter abbozzare. Fino a un po’ di tempo fa, immaginavo che lo scopo finale del deragliamento dottrinale fosse quello di produrre la caduta della fede nella presenza reale nell’ostia consacrata. Ora mi vado convincendo che questo, pur essendo un risultato già grande per il Demonio, sia solo un mezzo. Lo scopo del Nemico non è quello di oscurare una verità della quale lui non dubita, ma quello di accanirsi sul Corpo di Cristo e farne strazio. Siccome, per farlo, ha bisogno di agire senza ostacoli, la condizione migliore è quella di attaccare la cittadella di Cristo senza che vi siano sentinelle poiché nessuno pensa che vi sia Qualcuno da difendere.
In proposito, caro Scalvi, ho anche qualche altra idea, ma, per ora, penso che basti questo.
Alessandro Gnocchi
Sia lodato Gesù Cristo

Mercoledì di San Giusppe

Mercoledì di San Giusppe




A Mezzojuso, tutti i mercoledì, che vanno dal 23 gennaio fino al 19 marzo, i Confrati di San Giuseppe con il parroco, portano in processione solenne, alle famiglie che ne fanno richiesta, i "Quadri" di San Giusppe. La famiglia che riceve il quadro, per 7 giorni, assieme ai propri parenti, vicini di casa e amici, recita davanti al quadro, il Rosario di San Giuseppe.
Filmato realizzato da Nicolò Perniciaro

martedì 27 gennaio 2015

Mons. Zenti e la Messa "di sempre"

Mons. Zenti a S. Toscana il 28 dicembre 2014: “Il Vescovo rispetta e apprezza il rito che voi seguite”


Mons. Giuseppe Zenti a S. Toscana il 28 dicembre 2014
Il 28 dicembre 2014 S. E. mons. Giuseppe Zenti vescovo di Verona ha celebrato i vespri secondo il rito tridentino alla rettoria di S. Toscana a Porta Vescovo, la chiesa ove da oltre vent’anni vi è la messa tridentina la domenica alle 11.
Dopo la benedizione eucaristica il Presule ha rivolto elevate parole ai cristiani che gremivano la chiesa. Ha ricordato la grandezza del canto gregoriano, affermando che l’inno cantato ai vespri, Jesu Redemptor omnium, vale un’immensità, trasporta oltre il cielo. “Il Vescovo – così mons. Zenti – rispetta e apprezza il rito che voi seguite”.
I canti sono stati eseguiti dall’Esemble Veneti Cantori diretto dal m° Massimo Bisson. Il servizio liturgico è stato curato dall’Istituto di Cristo Re Sommo Sacerdote.
La funzione è stata promossa e organizzata dalla Sezione di Verona San Pietro Martire di Una Voce Italia, in collaborazione con il Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum. Era presente il presidente nazionale di Una Voce Italia.
Hanno assistito con l’abito da chiesa i cavalieri della Delegazione di Verona del Sovrano Militare Ordine di Malta accompagnati dal loro cappellano mons. Silvano Mantovani.

lunedì 26 gennaio 2015

don Camillo e don Chichì

Preti e preti

Preti a Roma, preti a Parigi. La Croce n°5

1620461_10204406275049795_1695336993744099505_n


Per gentile concessione del direttore del quotidiano LA CROCE (clicca su), Mario Adinolfi, pubblicherò qui, a distanza di circa una settimana dalla pubblicazione sul quotidiano cartaceo, i miei articoli lì apparsi, e quasi sempre collocati a pagina 4 tra il Vangelo del giorno e un discorso “integrale” del papa Francesco. Ho in partenza e deliberatamente rinunciato a qualsiasi mio scritto di vaticanismo, concentrandomi invece sulle piccole cose della vita nelle quali il “grande”, ossia ciò che conta, si disvela. E’ dell’Essenziale soffuso nei piccoli gesti della vita quotidiana che scriverò. Una sorta di appuntamento fisso sul quotidiano di ispirazione cristiana e cattolica, nel quale incido dei piccoli “cammeo”, che quando li ho proposti ad Adinolfi, così li ho spiegati:

«Il mio desiderio sarebbe periodicamente scrivere di questi piccoli “cammèo” su Roma, in genere dalla prospettiva del quartiere Africano: quadretti patetici e drammatici, comici sovente, dove si cerca il sacro nel profano, Dio nell’alienazione dell’essere sconosciuti dentro la metropoli».

Ogni “cammèo” verrà qui riportato con una foto nella versione cartacea su La Croce di una settimana-dieci giorni prima e in formato word per facilitarne la lettura.

Qui il mio primo intervento, risalente a sabato 17 gennaio 2015

CAMMEO 1 -  Preti a Roma, preti a Parigi*

La Croce quotidiano, 17 gennaio 2015


P1190331 (2)di Antonio Margheriti Mastino

Vado a cena con un giovane amico prete, nei dintorni della Tiburtina. Mi aspetta in auto davanti al Verano. Sarebbe vestito laicamente, non fosse per la linguetta al collo che indica il suo stato. Quando stiamo per giungere al locale fa un gesto che mi raggela il cuore: si sfila via la linguetta dal collo. «Ti dà fastidio?», no dico, mica sono indemoniato. «Non per te, è che quando vado in locali dove non sono abituati a vedere preti, preferisco toglierla». Ossia mimetizzarsi. Ho capito. Non servono domande. Mi avvolge una grande amarezza, una sensazione di sconfitta: capisco a che punto è la notte, ma non per via del prete: del contesto. Ma quel che più mi bruciava è che tutto questo avveniva nella città del papa, nel cuore stesso della cristianità. Figurarsi altrove!
Certo, sì, ho pensato a quelle parole di Gesù “chi si vergogna di me, io mi vergognerò di lui”. Ma non ho detto niente: mi mancavano le parole, il coraggio anche. Ho inghiottito muto il boccone gelido. Tanto più che sapevo essere un buon prete: non si vergognava del suo Signore, era imbarazzo, e paura: di essere ferito dalla pazzia d’Occidente. Chiunque, in qualsiasi locale, oggi, anche qui a Roma, vedendo un prete potrebbe sentirsi titolato a dire “ehi tu, pedofilo!”. Sono cose che possono ucciderti dentro.
Che è successo? Tante cose: la campagna mediatica, nevrastenica, che ci martella da anni, ha ridotto agli occhi del mondo il prete a un paria: una volta, tanto tempo fa, era considerato la punta di diamante del mondo, lo chiamavano, in Francia, “Primo Stato”, dopo venivano gli aristocratici.
xlogo-small.png.pagespeed.ic._npqrcnN_1Non riusciamo più a vedere un prete per quel che è e dire “quello è un ministro del culto”,  è uno con le mani consacrate, assume le funzioni di Cristo all’altare. No. Pensiamo: chissà quali sono le sue colpe, potrebbe essere un farabutto, uno dalla doppia morale. Associamo per riflesso condizionato la parola prete a “pedofilo”.
Allora, poveracci, come possono si mimetizzano per le strade di questa Città Eterna. “Lo dice la televisione”, pensa l’uomo della strada, così come un tempo diceva “l’ha detto il parroco”: è prete ergo è molestatore. Del resto, cosa fa il pensiero unico dominante dal suo medium di massa se non aggiungere alla parola “prete cattolico” ogni volta che la pronuncia la parola “scandalo”, “abuso”, “pedofilia”? L’associazione – come ben sanno gli esperti di messaggi subliminali – a furia di ripeterla da ogni megafono, presto diventerà automatica nella testa della massa anonima, l’allusione si fa verità.
Hanno paura, poveracci: paura persino della loro innocenza – perché quando sei innocente fa più male – paura dei risvolti della loro scelta scandalosa: accettare il sacerdozio di Cristo di questi tempi, che pressappoco è com’era accettarlo ai tempi di Nerone e Domiziano. Paura del sospetto, che per molti è l’anticamera della verità. I sospetti hanno sempre ucciso gli uomini. Il sospetto e non le prove, uccise Gesù.
Questo a Roma, l’altra Città Santa. Epperò è lo stesso prete che camminando per le strade di un’altra capitale europea che non è mai stata cattolica, orgogliosa della sua totale secolarizzazione e del suo apparente “multiculturalismo”, camminandoci vestito da prete cattolico, viene fermato per le strade del centro da un ragazzo, che se ne fa gran meraviglia di questo incontro. «Lei è un prete?», e a momenti forse si è sentito vacillare, qualcun altro che sta per additarlo per colpe che non ha. «Sì». «Che meraviglia! Non ci posso credere!». Non ci può credere? Se avesse incontrato un dodo redivivo si sarebbe sorpreso meno: un prete è diventato un’attrazione. «Padre, per piacere, mi benedica!», lì e subito. Il prete resta interdetto, commosso anche.
Quella linguetta al collo ne aveva fatto l’insperato testimone della speranza cristiana.  In una città che da tanto s’era scordata di Dio, che anzi l’aveva abolito. Ma Dio non è morto nel cuore dell’uomo. A Roma non sono una rarità i preti: non ci rendiamo conto di quale sovrabbondanza di grazia siamo bersaglio. Le cose le capisci e le apprezzi quando le perdi.
Forse c’è davvero da sperare che alla fine l’eterogenesi dei fini darà compimento alla  grande profezia del Curato d’Ars : «Verrà un tempo in cui gli uomini saranno così stanchi degli uomini che basterà far loro il nome di Dio e di Cristo per vederli piangere».
***
Clicca sull'immagine per ingrandire

La Croce n°5- Clicca sull’immagine per ingrandire
Incontro a una cena a via Germanico, nelle vicinanze di San Pietro, in casa di una mecenate, e protettrice di preti smarriti, un Legionario di Cristo messicano, padre Miguel. Ha sofferto come tutti là dentro la vicenda scabrosa del fondatore della sua congregazione, Maciel Degollado. È vestito con l’abito di rigore dei suoi confratelli: una talare e una fascia nera ai fianchi. E così bardato, racconta, si avventurò nella metropolitana di Parigi, la capitale della nazione che un tempo si diceva “cristianissima”, la “Figlia primigenia della Chiesa”, ma così non è più: è capitale del laicismo più violento, come violenta è l’avversione al cattolicesimo, e, per giunta  e quasi per castigo divino, al contempo sta diventando anche la capitale europea dell’esatto opposto del laicismo: l’islamismo, che giusto qualche giorno fa gli ha servito il primo conto, salatissimo, sanguinoso.
Mentre addirittura in talare percorre la metropolitana nessuno gli dà del pedofilo, dell’omofobo, del piromane che mette al rogo il libero pensiero insieme a quell’altro spostato di Giordano Bruno. Entra nel vagone, e un ragazzo lo guarda lo guarda. Un ragazzo parigino, occidentale, presumibilmente cattolico seppur nominalmente.
«Mi perdoni, monsieur, posso farle una domanda? Perché è vestito così?» Perché sono prete cattolico. «E cosa significa essere prete cattolico?» Incredibile! Credere nella resurrezione di Gesù, che vincendo la morte ci ha donato la vita eterna: ma lei conosce Gesù? «Per sentito dire, monsieur.» Lei è battezzato? «Battezzato? Non so, non ricordo: dovrei chiedere ai miei genitori». E questo nella Gallia, la terra che per prima si fece cristiana. Ma non crede in niente?, domanda calmo il legionario. «Io sono un razionalista, che c’è oltre la ragione? Però, vorrei sapere di questo Gesù: vorrei capire cosa spinge un uomo come lei a vestirsi così, qui non ne ho mai visti». Il legionario gli dà un appuntamento, per spiegare meglio. Da quel giorno, vagliando puntiglioso e contestando “secondo ragione” ogni affermazione del prete nel racconto della storia della salvezza, è iniziata la sua conoscenza di Gesù, il suo catechismo, un’amicizia eminentemente cristiana. La nuova evangelizzazione ha avuto inizio da un atto di estremo anticonformismo: indossare, il solo, la talare nella capitale del laicismo e dell’islamismo europeo. Seguendo il consiglio di Pietro: «Andate, spiegate chi siete, rispondete a chi vi domanda ragione della speranza che è in voi. Ma fatelo con dolcezza».

sabato 24 gennaio 2015

apostasia nella Chiesa



Mons. Georg Gänswein : non è colpa dei tradizionalisti


Interessante articolo di TradiNews (Actualité(s) du Traditionalisme Catholique) del 22 gennaio scorso. 

«SOURCE - Guillaume Luyt in collaborazione con Notions Romaines - 22 gennaio 2015 

Intervista del supplemento religioso giornale tedesco Die Zeit, all’Arcivescovo Gänswein, Prefetto della Casa Pontificia e  Segretario del Papa emerito che ha risposto inequivocabilmente al giornalista mettendolo alla corda quando viene incalzato sui presunti avversari “tradizionalisti” di Papa Francesco.
Ecco un passaggio da una traduzione in inglese dell'intervista:
Domanda: Come Benedetto ha visto i tentativi intrapresi dai “tradizionalisti” di fare di lui un anti-papa? 

Mons Gänswein
: Non sono i tradizionalisti che sostengono questo, ma dei teologi e dei giornalisti. Parlare di un anti-papa è solo stupido ed irresponsabile.
Chi va in quella direzione appicca un incendio doloso teologico
( Sottolineatura nostra N.d.R.)

Sembra che il giornalista del Die Zeit ha voluto capziosamente interpretare l'opposizione che incontrando attualmente Papa Francesco, una critica in sordina ma presente all'interno della Chiesa, evidenziata da giornalisti e intellettuali ( pensiamo che qui in Vaticano Jean- Marie Guénois in un articolo speciale de le Figaro nello scorso mese di dicembre ed il professor Odon Vallet con una sua intervista qui ) alcuni mettono persino in dubbio la validità di questo pontificato ( compreso il giornalista italiano Antonio Socci con il suo libro “Non è Francesco” ).
( Peccato che il giornalista di TradiNews non abbia citato il “caso” suscitato dal garbatissimo Articolo di Vittorio Messori sul Corriere della Sera Tutto fa supporre che gli ultrà di papa Francesco stessero aspettando al varco il Giornalista - uno dei pochi “signori” del giornalismo italiano-  per tendergli un'imboscata.  Una pletora di scomposti figuri del progressismo cattolico : dagli ex religiosi che han fatto carriera nella marxista "teologia della liberazione" ai più squisiti “mangiapreti” nostrani che durante i Pontificati di San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI guardando da lontano piazza San Pietro riversavano i loro bavosi commenti negativi su tutto quello che avveniva nella Chiesa. N.d.R.) 
Resta il fatto che i tradizionalisti, mentre si sentono in disaccordo con alcuni orientamenti del Papa che sono al contrario altamente celebrati dalla stampa laica, non sono quelli che stanno cercando di contrapporre l’ Emerito Pontefice come antipapa di Francesco. 
Questo è ciò che mons Gänswein voluto dimostrare alla stampa laica; che la fedeltà alla tradizione non equivale al dubbio della validità di Papa Francesco.
 » 
Fonte :  TradiNews
Επίσης, σε μας τους αμαρτωλούς