venerdì 23 ottobre 2015

Il peccato secondo papa Wojtyła

Il peccato sociale e il peccato personale. Distinzione tra peccato mortale e veniale nel Magistero di Papa Giovanni Paolo II



Il peccato, in senso vero e proprio, è sempre un atto della persona, perché è un atto di libertà di un singolo uomo, e non propriamente di un gruppo o di una comunità. Quest'uomo può essere condizionato, premuto, spinto da non pochi né lievi fattori esterni, come anche può essere soggetto a tendenze, tare, abitudini legate alla sua condizione personale. In non pochi casi tali fattori esterni e interni possono attenuare, in maggiore o minore misura, la sua libertà e, quindi, la sua responsabilità e colpevolezza. Ma è una verità di fede, confermata anche dalla nostra esperienza e ragione, che la persona umana è libera. Non si può ignorare questa verità, per scaricare su realtà esterne - le strutture, i sistemi, gli altri - il peccato dei singoli. Oltretutto, sarebbe questo un cancellare la dignità e la libertà della persona, che si rivelano - sia pure negativamente e disastrosamente - anche in tale responsabilità per il peccato commesso. Perciò, in ogni uomo non c'è nulla di tanto personale e intrasferibile quanto il merito della virtù o la responsabilità della colpa.
Atto della persona, il peccato ha le sue prime e più importanti conseguenze nel peccatore stesso: cioè, nella relazione di questi con Dio, che è il fondamento stesso della vita umana; nel suo spirito, indebolendone la volontà e oscurandone l'intelligenza.
A questo punto dobbiamo chiederci a quale realtà si riferivano coloro che, nella preparazione del Sinodo e nel corso dei lavori sinodali, menzionarono con non poca frequenza il peccato sociale. L'espressione e il concetto, che ad essa è sotteso, hanno invero diversi significati.
Parlare di peccato sociale vuol dire, anzitutto, riconoscere che, in virtù di una solidarietà umana tanto misteriosa e impercettibile quanto reale e concreta, il peccato di ciascuno si ripercuote in qualche modo sugli altri. E', questa, l'altra faccia di quella solidarietà che, a livello religioso, si sviluppa nel profondo e magnifico mistero della comunione dei santi, grazie alla quale si è potuto dire che «ogni anima che si eleva, eleva il mondo». A questa legge dell'ascesa corrisponde, purtroppo, la legge della discesa, sicché si può parlare di una comunione del peccato, per cui un'anima che si abbassa per il peccato abbassa con sé la Chiesa e, in qualche modo, il mondo intero. In altri termini, non c'è alcun peccato, anche il più intimo e segreto, il più strettamente individuale, che riguardi esclusivamente colui che lo commette. Ogni peccato si ripercuote, con maggiore o minore veemenza, con maggiore o minore danno, su tutta la compagine ecclesiale e sull'intera famiglia umana. Secondo questa prima accezione, a ciascun peccato si può attribuire indiscutibilmente il carattere di peccato sociale.
Alcuni peccati, però, costituiscono, per il loro oggetto stesso, un'aggressione diretta al prossimo e - più esattamente, in base al linguaggio evangelico - al fratello. Essi sono un'offesa a Dio, perché offendono il prossimo. A tali peccati si suole dare la qualifica di sociali, e questa è la seconda accezione del termine. In questo senso è sociale il peccato contro l'amore del prossimo, tanto più grave nella legge di Cristo, perché è in gioco il secondo comandamento, che è «simile al primo». E' egualmente sociale ogni peccato commesso contro la giustizia nei rapporti sia da persona a persona, sia dalla persona alla comunità, sia ancora dalla comunità alla persona. E' sociale ogni peccato contro i diritti della persona umana, a cominciare dal diritto alla vita, non esclusa quella del nascituro, o contro l'integrità fisica di qualcuno; ogni peccato contro la libertà altrui, specialmente contro la suprema libertà di credere in Dio e di adorarlo; ogni peccato contro la dignità e l'onore del prossimo. Sociale è ogni peccato contro il bene comune e contro le sue esigenze, in tutta l'ampia sfera dei diritti e dei doveri dei cittadini. Sociale può essere il peccato di commissione o di omissione da parte di dirigenti politici, economici, sindacali, che, pur potendolo, non s'impegnano con saggezza nel miglioramento o nella trasformazione della società secondo le esigenze e le possibilità del momento storico; come pure da parte di lavoratori, che vengono meno ai loro doveri di presenza e di collaborazione, perché le aziende possano continuare a procurare il benessere a loro stessi, alle loro famiglie, all'intera società.
La terza accezione di peccato sociale riguarda i rapporti tra le varie comunità umane. Questi rapporti non sempre sono in sintonia col disegno di Dio, che vuole nel mondo giustizia, libertà e pace tra gli individui, i gruppi, i popoli. Così la lotta di classe, chiunque ne sia il responsabile e, a volte, il codificatore, è un male sociale. Così la contrapposizione ostinata dei blocchi di nazioni e di una nazione contro l'altra, dei gruppi contro altri gruppi in seno alla stessa nazione, è pure un male sociale. In ambedue i casi, ci si può chiedere se si possa attribuire a qualcuno la responsabilità morale di tali mali e, quindi, il peccato. Ora si deve ammettere che realtà e situazioni, come quelle indicate, nel loro generalizzarsi e persino ingigantirsi come fatti sociali, diventano quasi sempre anonime, come complesse e non sempre identificabili sono le loro cause. Perciò, se si parla di peccato sociale, qui l'espressione ha un significato evidentemente analogico. In ogni caso, il parlare di peccati sociali, sia pure in senso analogico, non deve indurre nessuno a sottovalutare la responsabilità dei singoli, ma vuol essere un richiamo alle coscienze di tutti, perché ciascuno si assuma le proprie responsabilità, per cambiare seriamente e coraggiosamente quelle nefaste realtà e quelle intollerabili situazioni.
Ciò premesso nel modo più chiaro e inequivocabile, bisogna subito aggiungere che non è legittima e accettabile un'accezione del peccato sociale, pur molto ricorrente ai nostri giorni in alcuni ambienti, la quale nell'opporre, non senza ambiguità, peccato sociale a peccato personale, più o meno inconsapevolmente conduca a stemperare e quasi a cancellare il personale, per ammettere solo colpe e responsabilità sociali. Secondo tale accezione, che rivela facilmente la sua derivazione da ideologie e sistemi non cristiani - forse accantonati oggi da coloro stessi che ne erano già i sostenitori ufficiali - praticamente ogni peccato sarebbe sociale, nel senso di essere imputabile non tanto alla coscienza morale di una persona, quanto ad una vaga entità e collettività anonima, che potrebbe essere la situazione, il sistema, la società, le strutture, l'istituzione.

Orbene la Chiesa, quando parla di situazioni di peccato o denuncia come peccati sociali certe situazioni o certi comportamenti collettivi di gruppi sociali più o meno vasti, o addirittura di intere nazioni e blocchi di nazioni, sa e proclama che tali casi di peccato sociale sono il frutto, l'accumulazione e la concentrazione di molti peccati personali. Si tratta dei personalissimi peccati di chi genera o favorisce l'iniquità o la sfrutta; di chi, potendo fare qualcosa per evitare, o eliminare, o almeno limitare certi mali sociali, omette di farlo per pigrizia, per paura e omertà, per mascherata complicità o per indifferenza; di chi cerca rifugio nella presunta impossibilità di cambiare il mondo; e anche di chi pretende estraniarsi dalla fatica e dal sacrificio, accampando speciose ragioni di ordine superiore. Le vere responsabilità, dunque, sono delle persone.

Una situazione - e così un'istituzione, una struttura, una società - non è, di per sé, soggetto di atti morali; perciò, non può essere, in se stessa, buona o cattiva. Al fondo di ogni situazione di peccato si trovano sempre persone peccatrici. Ciò è tanto vero che, se tale situazione può essere cambiata nei suoi aspetti strutturali e istituzionali per la forza della legge o - come più spesso avviene, purtroppo - per la legge della forza, in realtà il cambiamento si rivela incompleto, di poca durata e, in definitiva, vano e inefficace - per non dire controproducente -, se non si convertono le persone direttamente o indirettamente responsabili di tale situazione.



Mortale, veniale
17. Ma ecco, nel mistero del peccato, una nuova dimensione, sulla quale l'intelligenza dell'uomo non ha mai cessato di meditare: quella della sua gravità. E' una questione inevitabile, alla quale la coscienza cristiana non ha mai rinunciato a dare una risposta: perché e in quale misura il peccato è grave nell'offesa che fa a Dio e nella sua ripercussione sull'uomo? La Chiesa ha una sua dottrina in proposito e la riafferma nei suoi elementi essenziali, pur sapendo che non sempre è facile, nella concretezza delle situazioni, operare nette delimitazioni di confini.
Già nell'Antico Testamento, per non pochi peccati - quelli commessi con deliberazione, le varie forme di impudicizia, di idolatria, di culto dei falsi dèi - si dichiarava che il reo doveva essere «eliminato dal suo popolo», ciò che poteva anche significare condannato a morte. Ad essi si contrapponevano altri peccati, soprattutto quelli commessi per ignoranza, che venivano perdonati mediante un sacrificio.
Anche in riferimento a quei testi la Chiesa, da secoli, costantemente parla di peccato mortale e di peccato veniale. Ma questa distinzione e questi termini ricevono luce soprattutto dal Nuovo Testamento, nel quale si trovano molti testi che enumerano e riprovano con forti espressioni i peccati particolarmente meritevoli di condanna, oltre alla conferma del Decalogo fatta da Gesù stesso. Voglio qui riferirmi specialmente a due pagine significative e impressionanti.
In un testo della sua prima lettera, san Giovanni parla di un peccato che conduce alla morte («pròs thánaton») in contrapposizione a un peccato che non conduce alla morte («mè pròs thánaton»). Ovviamente, qui il concetto di morte è spirituale: si tratta della perdita della vera vita o «vita eterna», che per Giovanni è la conoscenza del Padre e del Figlio, la comunione e l'intimità con loro. Il peccato che conduce alla morte sembra essere in quel brano la negazione del Figlio, o il culto di false divinità. Comunque, con tale distinzione di concetti Giovanni sembra voler accentuare l'incalcolabile gravità di ciò che è l'essenza del peccato, il rifiuto di Dio, che si attua soprattutto nell'apostasia e nell'idolatria, cioè nel ripudiare la fede nella verità rivelata e nell'equiparare a Dio certe realtà create, erigendole a idoli o falsi dèi. Ma l'apostolo in quella pagina intende anche mettere in luce la certezza che viene al cristiano dal fatto di essere «nato da Dio» per la venuta del Figlio: c'è in lui una forza che lo preserva dalla caduta nel peccato; Dio lo custodisce, «il maligno non lo tocca». Che se pecca per debolezza o per ignoranza, c'è in lui la speranza della remissione, anche per il sostegno che gli proviene dalla preghiera congiunta dei fratelli.
In un'altra pagina del Nuovo Testamento, nel Vangelo di Matteo (Mt 12,31s), Gesù stesso parla di una «bestemmia contro lo Spirito Santo», la quale è «irremissibile», poiché essa è nelle sue manifestazioni un ostinato rifiuto di conversione all'amore del Padre delle misericordie.
Si tratta, beninteso, di espressioni estreme e radicali: rifiuto di Dio, rifiuto della sua grazia e, quindi, opposizione al principio stesso della salvezza, per cui l'uomo sembra volontariamente precludersi la via della remissione. E' da sperare che ben pochi vogliano ostinarsi fino alla fine in questo atteggiamento di ribellione o addirittura di sfida contro Dio, il quale, d'altra parte, nel suo amore misericordioso è più grande del nostro cuore - come ci insegna ancora san Giovanni - e può vincere tutte le nostre resistenze psicologiche e spirituali, sicché - come scrive san Tommaso d'Aquino - «non c'è da disperare della salvezza di nessuno in questa vita, considerata l'onnipotenza e la misericordia di Dio».
Ma dinanzi al problema dell'incontro di una volontà ribelle col Dio infinitamente giusto non si può non nutrire sentimenti di salutare «timore e tremore», come suggerisce san Paolo; mentre l'ammonimento di Gesù circa il peccato che non è «remissibile» conferma l'esistenza di colpe, che possono attirare sul peccatore, come pena, la «morte eterna».
Alla luce di questi e altri testi della Sacra Scrittura, i dottori e i teologi, i maestri spirituali e i pastori hanno distinto i peccati in mortali e veniali. Sant'Agostino, fra gli altri, parla di «letalia» o «mortifera crimina», opponendoli a «venialia», «levia» o «quotidiana». Il significato che egli attribuisce a questi qualificativi influirà nel magistero successivo della Chiesa. Dopo di lui, sarà san Tommaso d'Aquino a formulare nei termini più chiari possibili la dottrina divenuta costante nella Chiesa.
Nel definire e distinguere i peccati mortali e veniali, non poteva essere estraneo a san Tommaso e alla teologia del peccato, che si rifà a lui, il riferimento biblico e, quindi, il concetto di morte spirituale. Secondo il Dottore Angelico, per vivere spiritualmente l'uomo deve rimanere in comunione col supremo principio della vita, che è Dio, in quanto è il fine ultimo di tutto il suo essere e il suo agire. Ora il peccato è un disordine perpetrato dall'uomo contro questo principio vitale. E quando, «per mezzo del peccato, l'anima commette un disordine che va fino alla separazione dal fine ultimo - Dio -, al quale essa è legata per la carità, allora si ha il peccato mortale; invece, ogni volta che il disordine rimane al di qua della separazione da Dio, allora il peccato è veniale». Per questa ragione, il peccato veniale non priva della grazia santificante, dell'amicizia con Dio, della carità, né quindi della beatitudine eterna, mentre siffatta 
privazione è appunto conseguenza del peccato mortale.
Considerando, inoltre, il peccato sotto l'aspetto della pena che include, san Tommaso con altri dottori chiama mortale il peccato che, se non rimesso, fa contrarre una pena eterna; veniale il peccato che merita una semplice pena temporale (cioè parziale ed espiabile in terra o nel purgatorio).
Se poi si guarda alla materia del peccato, allora le idee di morte, di rottura radicale con Dio, sommo bene, di deviazione dalla strada che porta a Dio o di interruzione del cammino verso di lui (tutti modi di definire il peccato mortale) si congiungono con l'idea di gravità del contenuto oggettivo: perciò, il peccato grave si identifica praticamente, nella dottrina e nell'azione pastorale della Chiesa, col peccato mortale.
Cogliamo qui il nucleo dell'insegnamento tradizionale della Chiesa, ribadito spesso e con vigore nel corso del recente Sinodo. Questo, infatti, non soltanto ha riaffermato quanto è stato proclamato dal Concilio Tridentino sull'esistenza e la natura dei peccati mortali e veniali, ma ha voluto ricordare che è peccato mortale quello che ha per oggetto una materia grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso. E' doveroso aggiungere - come è stato anche fatto nel Sinodo - che alcuni peccati, quanto alla loro materia, sono intrinsecamente gravi e mortali. Esistono, cioè, atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti, in ragione del loro oggetto. Questi atti, se compiuti con sufficiente consapevolezza e libertà, sono sempre colpa grave.
Questa dottrina fondata sul Decalogo e sulla predicazione dell'Antico Testamento, ripresa nel kerigma degli apostoli e appartenente al più antico insegnamento della Chiesa, che la ripete fino ad oggi, ha un preciso riscontro nell'esperienza umana di tutti i tempi. L'uomo sa bene, per esperienza, che nel cammino di fede e di giustizia che lo porta verso la conoscenza e l'amore di Dio in questa vita e verso la perfetta unione con lui nell'eternità, può sostare o distrarsi, senza però abbandonare la via di Dio: in questo caso si ha il peccato veniale, il quale, tuttavia, non dovrà essere attenuato quasi che sia automaticamente qualcosa di trascurabile o un «peccato di poco conto».
Sennonché l'uomo sa pure, per dolorosa esperienza, che con atto consapevole e libero della sua volontà può fare un'inversione di marcia, camminare nel senso opposto al volere di Dio e così allontanarsi da lui («aversio a Deo»), rifiutando la comunione di amore con lui, staccandosi dal principio di vita che è lui, e scegliendo, dunque, la morte.
Con tutta la tradizione della Chiesa noi chiamiamo peccato mortale questo atto, per il quale un uomo, con libertà e consapevolezza, rifiuta Dio, la sua legge, l'alleanza di amore che Dio gli propone, preferendo volgersi a se stesso, a qualche realtà creata e finita, a qualcosa di contrario al volere divino («conversio ad creaturam»). Il che può avvenire in modo diretto e formale, come nei peccati di idolatria, di apostasia, di ateismo; o in modo equivalente, come in tutte le disubbidienze ai comandamenti di Dio in materia grave. L'uomo sente che questa disubbidienza a Dio tronca il collegamento col suo principio vitale: è un peccato mortale, cioè un atto che offende gravemente Dio e finisce col rivolgersi contro l'uomo stesso con un'oscura e potente forza di distruzione.
Durante l'assemblea sinodale è stata proposta da alcuni padri una distinzione tripartita fra i peccati, che sarebbero da classificare come veniali, gravi e mortali. La tripartizione potrebbe mettere in luce il fatto che fra i peccati gravi esiste una gradazione. Ma resta sempre vero che la distinzione essenziale e decisiva è fra peccato che distrugge la carità e peccato che non uccide la vita soprannaturale: fra la vita e la morte non si dà via di mezzo.
Parimenti, si dovrà evitare di ridurre il peccato mortale a un atto di «opzione fondamentale» - come oggi si suol dire - contro Dio, intendendo con essa un esplicito e formale disprezzo di Dio o del prossimo. Si ha, infatti, peccato mortale anche quando l'uomo, sapendo e volendo, per qualsiasi ragione sceglie qualcosa di gravemente disordinato. In effetti, in una tale scelta è già contenuto un disprezzo del precetto divino, un rifiuto dell'amore di Dio verso l'umanità e tutta la creazione: l'uomo allontana se stesso da Dio e perde la carità. L'orientamento fondamentale, quindi, può essere radicalmente modificato da atti particolari. Senza dubbio si possono dare situazioni molto complesse e oscure sotto l'aspetto psicologico, che influiscono sulla imputabilità soggettiva del peccatore. Ma dalla considerazione della sfera psicologica non si può passare alla costituzione di una categoria teologica, qual è appunto l'«opzione fondamentale», intendendola in modo tale che, sul piano oggettivo, cambi o metta in dubbio la concezione tradizionale di peccato mortale.

Se è da apprezzare ogni tentativo sincero e prudente di chiarire il mistero psicologico e teologico del peccato, la Chiesa però ha il dovere di ricordare a tutti gli studiosi di questa materia la necessità, da una parte, di essere fedeli alla parola di Dio che ci istruisce anche sul peccato, e il rischio, dall'altra, che si corre di contribuire ad attenuare ancora di più, nel mondo contemporaneo, il senso del peccato.

Perdita del senso del peccato
18. Dal Vangelo letto nella comunione ecclesiale la coscienza cristiana ha acquisito, lungo il corso delle generazioni, una fine sensibilità e un'acuta percezione dei fermenti di morte, che sono contenuti nel peccato. Sensibilità e capacità di percezione anche per individuare tali fermenti nelle mille forme assunte dal peccato, nei mille volti sotto i quali esso si presenta. E' ciò che si suol chiamare il senso del peccato.
Questo senso ha la sua radice nella coscienza morale dell'uomo e ne è come il termometro. E' legato al senso di Dio, giacché deriva dal rapporto consapevole che l'uomo ha con Dio come suo creatore, Signore e Padre. Perciò, come non si può cancellare completamente il senso di Dio né spegnere la coscienza, così non si cancella mai completamente il senso del peccato.
Eppure, non di rado nella storia, per periodi di tempo più o meno lunghi e sotto l'influsso di molteplici fattori, succede che viene gravemente oscurata la coscienza morale in molti uomini. «Abbiamo noi un'idea giusta della coscienza»? - domandavo due anni fa in un colloquio con i fedeli -. «Non vive l'uomo contemporaneo sotto la minaccia di un'eclissi della coscienza? di una deformazione della coscienza? di un intorpidimento o di un'"anestesia" delle coscienze?». Troppi segni indicano che nel nostro tempo esiste una tale eclissi, che è tanto più inquietante, in quanto questa coscienza, definita dal Concilio «il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo» («Gaudium et Spes», 16), è «strettamente legata alla libertà dell'uomo (...). Per questo la coscienza in misura principale sta alla base della dignità interiore dell'uomo e, nello stesso tempo, del suo rapporto con Dio». E' inevitabile, pertanto, che in questa situazione venga obnubilato anche il senso di Dio, il quale è strettamente connesso con la coscienza morale, con la ricerca della verità, con la volontà di fare un uso responsabile della libertà. Insieme con la coscienza viene oscurato anche il senso di Dio, e allora, smarrito questo decisivo punto di riferimento interiore, si perde il senso del peccato. Ecco perché il mio predecessore Pio XII, con una parola diventata quasi proverbiale, poté dichiarare un giorno che «il peccato del secolo è la perdita del senso del peccato».
Perché questo fenomeno nel nostro tempo? Uno sguardo a talune componenti della cultura contemporanea può aiutarci a capire il progressivo attenuarsi del senso del peccato, proprio a causa della crisi della coscienza e del senso di Dio, sopra rilevata.
Il «secolarismo», il quale, per la sua stessa natura e definizione, è un movimento di idee e di costumi che propugna un umanesimo che astrae totalmente da Dio, tutto concentrato nel culto del fare e del produrre e travolto nell'ebbrezza del consumo e del piacere, senza preoccupazione per il pericolo di «perdere la propria anima», non può non minare il senso del peccato. Quest'ultimo si ridurrà tutt'al più a ciò che offende l'uomo. Ma proprio qui si impone l'amara esperienza, a cui già accennavo nella mia prima enciclica, che cioè l'uomo può costruire un mondo senza Dio, ma questo mondo finirà per ritorcersi contro l'uomo. In realtà, Dio è la radice e il fine supremo dell'uomo, e questi porta in sé un germe divino. Perciò, è la realtà di Dio che svela e illumina il mistero dell'uomo. E' vano, quindi, sperare che prenda consistenza un senso del peccato nei confronti dell'uomo e dei valori umani, se manca il senso dell'offesa commessa contro Dio, cioè il senso vero del peccato.

Svanisce questo senso del peccato nella società contemporanea anche per gli equivoci in cui si cade nell'apprendere certi risultati delle scienze umane. Così in base a talune affermazioni della psicologia, la preoccupazione di non colpevolizzare o di non porre freni alla libertà, porta a non riconoscere mai una mancanza. Per un'indebita estrapolazione dei criteri della scienza sociologica si finisce - come ho già accennato - con lo scaricare sulla società tutte le colpe, di cui l'individuo vien dichiarato innocente. Anche una certa antropologia culturale, a sua volta a forza di ingrandire i pur innegabili condizionamenti e influssi ambientali e storici che agiscono sull'uomo, ne limita tanto la responsabilità da non riconoscergli la capacità di compiere veri atti umani e, quindi, la possibilità di peccare.
Scade facilmente il senso del peccato anche in dipendenza di un'etica derivante da un certo relativismo storicistico. Essa può essere l'etica che relativizza la norma morale, negando il suo valore assoluto e incondizionato, e negando, di conseguenza, che possano esistere atti intrinsecamente illeciti, indipendentemente dalle circostanze in cui sono posti dal soggetto. Si tratta di un vero «rovesciamento e di una caduta di valori morali», e «il problema non è tanto di ignoranza dell'etica cristiana», ma «piuttosto è quello del senso, dei fondamenti e dei criteri dell'atteggiamento morale». L'effetto di questo rovesciamento etico è sempre anche quello di attutire a tal punto la nozione di peccato, che si finisce quasi con l'affermare che il peccato c'è, ma non si sa chi lo commette.
Svanisce, infine, il senso del peccato quando - come può avvenire nell'insegnamento ai giovani, nelle comunicazioni di massa, nella stessa educazione familiare - esso viene erroneamente identificato col sentimento morboso della colpa o con la semplice trasgressione di norme e precetti legali.
La perdita del senso del peccato, dunque, è una forma o un frutto della negazione di Dio: non solo di quella ateistica, ma anche di quella secolaristica. Se il peccato è l'interruzione del rapporto filiale con Dio per portare la propria esistenza fuori dell'obbedienza a lui, allora peccare non è soltanto negare Dio; peccare è anche vivere come se egli non esistesse, è cancellarlo dal proprio quotidiano. Un modello di società mutilato o squilibrato nell'uno o nell'altro senso, quale è spesso sostenuto dai mezzi di comunicazione, favorisce non poco la progressiva perdita del senso del peccato. In tale situazione l'offuscamento o affievolimento del senso del peccato risulta sia dal rifiuto di ogni riferimento al trascendente in nome dell'aspirazione all'autonomia personale; sia dall'assoggettarsi a modelli etici imposti dal consenso e costume generale, anche se condannati dalla coscienza individuale; sia dalle drammatiche condizioni socio-economiche che opprimono tanta parte dell'umanità, generando la tendenza a vedere errori e colpe soltanto nell'ambito del sociale; sia, infine e soprattutto, dall'oscuramento dell'idea della paternità di Dio e del suo dominio sulla vita dell'uomo.
Persino nel campo del pensiero e della vita ecclesiale alcune tendenze favoriscono inevitabilmente il declino del senso del peccato. Alcuni, ad esempio, tendono a sostituire esagerati atteggiamenti del passato con altre esagerazioni: essi passano dal vedere il peccato dappertutto al non scorgerlo da nessuna parte; dall'accentuare troppo il timore delle pene eterne al predicare un amore di Dio, che escluderebbe ogni pena meritata dal peccato; dalla severità nello sforzo per correggere le coscienze erronee a un presunto rispetto della coscienza, tale da sopprimere il dovere di dire la verità. E perché non aggiungere che la confusione, creata nella coscienza di numerosi fedeli dalle divergenze di opinioni e di insegnamenti nella teologia, nella predicazione, nella catechesi, nella direzione spirituale, circa questioni gravi e delicate della morale cristiana, finisce per far diminuire, fin quasi a cancellarlo, il vero senso del peccato? Né vanno taciuti alcuni difetti nella prassi della penitenza sacramentale: tale è la tendenza a offuscare il significato ecclesiale del peccato e della conversione, riducendoli a fatti meramente individuali, o viceversa, ad annullare la valenza personale del bene e del male per considerarne esclusivamente la dimensione comunitaria; tale è anche il pericolo, non mai totalmente scongiurato, del ritualismo abitudinario che toglie al sacramento il suo pieno significato e la sua efficacia formativa.


Ristabilire il giusto senso del peccato è la prima forma per affrontare la grave crisi spirituale incombente sull'uomo del nostro tempo. Ma il senso del peccato si ristabilisce soltanto con un chiaro richiamo agli inderogabili principi di ragione e di fede, che la dottrina morale della Chiesa ha sempre sostenuto.
E' lecito sperare che soprattutto nel mondo cristiano ed ecclesiale riaffiori un salutare senso del peccato. A ciò serviranno una buona catechesi, illuminata dalla teologia biblica dell'alleanza, un attento ascolto e una fiduciosa accoglienza del magistero della Chiesa, che non cessa di offrire luce alle coscienze, e una prassi sempre più accurata del sacramento della penitenza.

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