sabato 24 ottobre 2015

abolire il papato

Conciliarità, Sinodalità. 

Come cambia la Chiesa?



Il Giornale di oggi, 17 ottobre, afferma che il Papa sorprende e spiazza. Ma era già successo. L'allarme è stato dato invano. Ora quello che lui definisce 'processo aperto' è in rapida progressione. Non si può dunque lasciar cadere sotto silenzio quest'ultimo scossone di Bergoglio a La Catholica. Mi riferisco al discorso pronunciato per la commemorazione del 50° del Sinodo nell'Aula Nervi: un discorso in cui il papa ha manifestato il proprio interesse a rivedere le forme del ministero e del primato petrino.
"Il Papa non sta, da solo, al di sopra della Chiesa - ha spiegato Francesco ma dentro di essa come battezzato tra i battezzati e dentro il Collegio episcopale come vescovo tra i vescovi, chiamato al contempo, come Successore dell’apostolo Pietro, a guidare la Chiesa di Roma che presiede nell’amore tutte le Chiese". Bergoglio s'impegna a edificare " una Chiesa sinodale, missione - ha detto - alla quale tutti siamo chiamati, ciascuno nel ruolo che il Signore gli affida". "Per questa ragione - ha spiegato - parlando a una delegazione del patriarcato di Costantinopoli, ho recentemente ribadito la convinzione che 'l'attento esame di come si articolano nella vita della Chiesa il principio della sinodalità ed il servizio di colui che presiede offrirà un contributo significativo al progresso delle relazioni tra le nostre Chiese". "Sono persuaso - ha continuato Bergoglio - che, in una Chiesa sinodale, anche l'esercizio del primato petrino potrà ricevere maggiore luce". [...] Mentre ribadisco la necessità e l'urgenza di pensare a «una conversione del papato». (Cita Evangelii gaudium, 32. Vedi successivo punto 2. - Conversione del papato)
Di seguito non faccio altro che riproporre la sintesi aggiornata di articoli pubblicati, rispettivamente, il 21 settembre 2013 e il 6 aprile 2014, ed altri dello stesso periodo, il cui contenuto torna di attualità, senza che nessuna voce autorevole si alzi a farsene carico, ora come allora.

1. Papato e sinodalità e/o conciliarità 
L'intervista al papa de La Civiltà Cattolica (19 agosto 2013, pubblicata sul numero del 19 settembre) è divenuta una miniera di informazioni e la reiterazione di esternazioni che confermano il nuovo conformismo anticonformista di questo papa. A detta dello stesso intervistatore essa si è rivelata: « una sorta di flusso vulcanico di idee che si annodano tra loro... un dialogo sorgivo. È chiaro che Papa Francesco è abituato più alla conversazione che alla lezione ».
Ma a noi è altrettanto chiaro che un papa non può continuare a dare lezioni che hanno l'immediatezza e il pressappochismo delle conversazioni. E invece questa inedita ma ormai consolidata pastorale mediatica - che si impone a chi ha portato cuore e intelletto all'ammasso o non ha sufficienti strumenti di decriptazione - è così fluida e cangiante ed anche fumosa nonché suscettibile di interpretazioni plurime, da creare una confusione quasi ingestibile, anche per la refrattarietà ad ogni tipo di critica oggettivante.
Per comprendere questa enfasi sulla collegialità - trasformata addirittura in sinodalità [1] -, dobbiamo partire dai documenti conciliari, nei quali è facile trovare anche solo spigolando, disseminati a volte in maniera apparentemente 'casuale', elementi dissonanti e non condivisibili perché in rottura con la Tradizione; rottura a volte palese, a volte in nuce e riconoscibile solo dagli effetti che ora sono sotto i nostri occhi. Rottura che spesso contrasta con le affermazioni di principio iniziali, che risultano vanificate dalle eccezioni che, nella successiva applicazione operata dai solerti conciliari all'opera nella Chiesa ai più alti livelli, sono diventate la regola.

Prima di riportare di seguito, nei "Prodromi", uno stralcio della riflessione che ho già fatto sulla collegialità, legandone le insidie a quelle della cosiddetta chiesa-comunione versus la chiesa gerarchica, riepilogo brevemente gli atti che ne mostrano la graduale ma sempre più incisiva applicazione, della quale oggi assistiamo ad una pietra miliare dagli effetti certamente dirompenti: sembra un'accelerazione della costituzione di una Chiesa "altra" da quella che la Tradizione bimillenaria ci ha consegnato.
  1. 21 novembre 1964: nella Costituzione Dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, la collegialità è introdotta al n.22. Secondo le più innovatrici interpretazioni di tale passo il Papa non dovrebbe più conservare un primato verticale sugli altri vescovi, ma solamente un primato orizzontale, onorifico, nel quale egli sarebbe un vescovo e le varie conferenze episcopali altro non sarebbero che organi consultivi. Nel documento il termine "collegio" ricorre 28 volte, quello collegialità 1; nel Vangelo nessuna. La famosa Nota Explicativa praevia - redatta su indicazione del card. Ottaviani nell'intento di correggere le incongruenze che erano state prontamente rilevate - è stata regolarmente ignorata e dunque disattesa (vedi successivo punto 1.2 - I prodromi, la collegialità).

  2. Paolo VI depone la Tiara. Vi rimando a questo documento ed a questo successivo nei quali la lettura dei fatti, che ora sembrano aver raggiunto un nuovo culmine, andava dipanandosi.
    La deposizione della Tiara da parte di Paolo VI, fu attuata solo nella prassi e mai codificata se non con un cambiamento, sempre di prassi, sancito da Giovanni Paolo II consolidatosi con i successori.
    Sono a conoscenza di un dato storico proveniente da una testimonianza dell'allora protodiacono, card. Di Jorio. Quando Paolo VI manifestò l'intenzione di deporre la Tiara, non gli fu possibile farlo con una cerimonia come avrebbe voluto perché i cardinali-diaconi gli dissero: « Noi gliel'abbiamo imposta, noi non gliela leveremo ». E dunque egli entrò in Basilica portandola in mano e andò a deporla sotto l'Altare della Confessione...Ma oggi, di fatto la Tiara non c'è più, se non nei simboli custoditi dalle pietre e dalle vestigia storiche che ci tramandano il respiro di una fede millenaria [qui].

  3. Giovanni Paolo II trasforma la collegialità in legge, inserendola nel nuovo Codice di Diritto Canonico (Costituzione Apostolica Sacrae disciplinae leges, 25 gennaio 1983)
  4. Benedetto XVI attua la collegialità in maniera soft, ma efficace, con una certa desistenza dal governo a favore di una maggiore responsabilizzazione dei vescovi. Come atto conclusivo, 'depone' la giurisdizione [vedi qui] - [e qui]. Che senso può avere che non abbia voluto modificare lo stemma?

  5. 13 marzo 2013: Francesco depone tutti i simboli; 13 aprile 2013: "Consiglio della corona"/29 giugno 2013 [qui]: rende operante la collegialità e apre ad eretici e scismatici
Si ora sta dipanando sotto i nostri occhi e tenta di imporsi una nuova 'forma' di esercizio del ministero petrino, già potenzialmente inquinato dalla "collegialità", alla quale si aggiunge ora, del tutto inopinatamente, la cosiddetta "conciliarità" trasformata in "sinodalità" (cfr. 1.3 - Bergoglio e La civiltà cattolica).

La pienezza della suprema autorità, che appartiene al Romano Pontefice e al collegio dei vescovi in comunione con lui non come unico soggetto, ma come due soggetti distinti, si estende alla Chiesa universale, e anche a alle Chiese particolari, ai singoli sacerdoti e fedeli, mentre la «pienezza» della potestà del vescovo si estende soltanto alla sua Chiesa particolare. Inoltre, la potestà del vescovo è limitata anche per materia all’interno del suo territorio, per il fatto che il vescovo e la sua Chiesa locale sono destinatari delle leggi universali o comuni e sono sottoposti alle riserve enunciate dal c. 381, § 1.

1.2 - I prodromi, la collegialità
Il 21 novembre 1964, per la chiusura del terzo periodo del Concilio ecumenico, Paolo VI afferma: «la Chiesa non si compone soltanto della sua struttura gerarchica, della sacra liturgia, dei sacramenti, dei suoi organismi» e cita la mistica unione con Cristo; ma poi, secondo una nuova visuale, traccia sostanzialmente il passaggio da una Chiesa, vista come gerarchica, come società perfetta, a una Chiesa vista come comunione di fratelli. Da una Chiesa vista come sempre tesa a difendere i suoi spazi e i suoi diritti, a una Chiesa che vuole essere solo lievito nella pasta. Lievito all’interno delle sue strutture, lievito all’interno delle altre religioni. Da una Chiesa vista come chiusa in se stessa preoccupata della sua conservazione – ma così era, riduttivamente, prima del mitico Concilio Vaticano II? –  a una Chiesa come comunità aperta al mondo, popolo di Dio in cammino. Un principio che gli sembrò doversi esplicare in quanto fin allora implicito nell’ecclesiologia cattolica fu quello della collegialità, divenuto uno dei maggiori criteri di riforma della Chiesa.

Il problema nasce dalla contraddizione tra la democratizzazione che scaturisce da questa nuova visione di Chiesa e la sua costituzione divina. Viene inadeguatamente applicato alla Chiesa il principio che regola le comunità civili, ignorando la differenza tra esse e Chiesa di Cristo: le comunità civili prima si pongono in essere e poi si danno e formano il proprio governo. In ciò esercitano la loro libertà, mentre in esse stesse si fonda originariamente e fontalmente ogni giurisdizione comunicata alle autorità sociali. Al contrario, la Chiesa non si è data da se stessa né ha formato da sé stessa il suo governo, ma è stata fondata in toto da Cristo il cui disegno preesiste all’esistenza stessa dei fedeli. La Chiesa è dunque una società sui generis in cui il capo è anteriore alle membra e l’autorità viene prima della comunità.[2]

Quindi una dottrina che ponga la sua base nel popolo di Dio democraticamente concepito e nel sentimento e nell’opinione del popolo di Dio, è antitetica a quella della Chiesa dove l’autorità non è chiamata ma chiama, e dove tutti i membri sono servi di Cristo, obbligati al precetto divino.

Sui poteri del Pontefice e sul suo rapportarsi alla collegialità molto influisce l’ambiguità dellaLumen Gentium  alla quale Paolo VI, messo sull'avviso dai Padri del Coetus Internationalis Patrum, cercò di rimediare con la Nota Praevia stesa sotto la supervisione del Cardinal Ottaviani. E tuttavia tale nota, con molta coerenza progressista posta in calce alla Costituzione, viene sistematicamente "saltata" essendo, appunto, "praevia"...

La Chiesa è per sua natura gerarchica. E il Papa (CIC, can.331), in virtù della sua funzione di Vicario di Cristo, ha nella Chiesa un potere ordinario supremo, pieno, immediato e universale, che può sempre esercitare liberamente. Il potere gli deriva dalla sua funzione e non da una sorta di presidenza del collegio episcopale. Del resto, il can. 1404 recita: Prima Sedes a nemine iudicatur.

La dottrina del Vaticano I e del Vaticano II nella Nota praevia definisce il Papa principio e fondamento dell’unità della Chiesa, giacché è conformandosi a lui che i vescovi si conformano tra di loro. Non è possibile poggino la loro autorità su un principio immediato che sarebbe comune alla loro potestà e a quella papale. Ora con l’istituzione delle Conferenze episcopali e con gli organismi Sinodali la Chiesa è un corpo policentrico a vari livelli nazionali o provincie locali. Conseguenza immediata è un allentamento del vincolo di unità che si manifesta con ingenti dissensi su punti gravissimi.

La nuova ecclesiologia conciliare sancita da Lumen Gentium si armonizza con la “Pastor æternus” circa la giurisdizione universale del Romano Pontefice (n.18), però azzarda un avventuroso allargamento di questa mediante la dottrina della collegialità vescovile come organo di governo accanto e analogo a quello del Sommo Pontefice (nn.19, 22). Nonostante la “Nota esplicativa previa”, mons. Gherardini osserva che « dottrina della Chiesa è quanto la sua Tradizione, dagli Apostoli sino ad oggi, presenta e propone come tale: la collegialità non ne fa parte ».

Lumen Gentium, al n.19 dichiara: « Il Signore Gesù, dopo aver pregato il Padre, chiamò a sé quelli che egli volle, e ne costituì dodici perché stessero con lui e per mandarli a predicare il regno di Dio (cfr. Mc 3,13-19; Mt 10,1-42); ne fece i suoi apostoli (cfr. Lc 6,13) dando loro la forma di collegio … »

Non mancano perplessità, nelle posizioni più tradizioniste, se si pensa che il termine “collegio” per designare l'episcopato non ricorre né nella Sacra Scrittura né nella Tradizione della Chiesa antica. Apostoli vuol dire ‘mandati’: il Signore li manda due a due non in "collegio"... C’è anche da osservare che il “collegio” si fonda su una potestà giuridica e morale, mentre si diviene vescovi per via sacramentale, ovvero mediante un quid che è nel contempo fisico e mistico come lo è l'unità della Chiesa.

La collegialità, per effetto della creazione di strutture sovra diocesane come le Conferenze Episcopali, rischia di diminuire non solo l'autorità del pontefice ma anche quella dei singoli vescovi nelle loro diocesi. Inoltre non è peregrina l'osservazione che se i vescovi, per diritto divino, costituiscono un vero e permanente collegio in senso stretto, con a capo il romano pontefice, ne deriva come prima e non unica conseguenza che la chiesa in modo abituale dovrebbe essere governata dal Papa con il collegio episcopale. In altre parole, il governo della Chiesa, per diritto divino, non sarebbe monarchico e personale, ma collegiale. È Giovanni Paolo II che ha inserito la collegialità nel nuovo Codice di Diritto Canonico trasformandola così in legge (Costituzione Apostolica Sacrae disciplinae leges, 25 gennaio 1983).

In effetti si manifesta una duplice inconciliabilità nel principio del rapporto tra Primato e collegialità. Basti pensare alla tesi dell’unico soggetto (collegio dei vescovi e romano pontefice) e i dati del magistero che, pur senza posizioni dichiarative parlano di due distinti soggetti (LG 22). All’interno stesso di questa suddivisione, la stessa inconciliabilità si coglie tra le esigenze metafisiche dell’autorità nella vita sociale e la realtà ecclesiale compresa alla luce della rivelazione cristiana.

La Lumen Gentium, al n. 22 evidenzia una tensione che, ultimamente, manifesta la difficoltà di « collocare all'interno di una concezione collegiale del ministero episcopale che scaturisce da un'ampia prospettiva storico-salvifica della Chiesa come communio la dottrina del Vaticano I, la quale si distingue per una visione della Chiesa apologetica, giuridica  e astorica ed inoltre concentrata sul Papa »[3].

La Chiesa in tutte le epoche risente di -ismi di vario genere, dai quali la sua, che è anche la nostra, storia terrena non è mai esente. Ma assolutizzare certi aspetti per giustificare la rivoluzione Copernicana operata dal concilio è stata un’operazione prevenuta e ideologica. Di certo era necessario aggiornare ciò che era rinnovabile e meglio organizzabile, non rifondare la Chiesa.

Si pretende dunque che la visione Chiesa-comunione sia la scoperta del Vaticano II e vada a sostituirsi a quella di società perfetta ed oggi appare dominante come se più vicina alle assonanze bibliche  specificamente neotestamentarie, come se potesse finalmente sintetizzare alla perfezione tutto il rapporto con Dio fino al concilio non esattamente compreso. Ma il rischio più grande è quello di ricondurre tutto ad un'interpretazione puramente psico-sociologica, ai bisogni e alle attese umane. Acquista valore la Chiesa locale, come se l’universalità della Chiesa e tutto il suo mistero prima del concilio non le appartenesse a pieno titolo.

Possibile che nessuno abbia mai detto a costoro che la Chiesa, fin dal suo nascere ad opera del Salvatore, se non fosse stata e rimasta “comunione” dei Suoi in Lui, non sarebbe mai stata LA Chiesa?

1.3 - Bergoglio e La civiltà cattolica

Tra gli ormai numerosi segnali di mutazioni genetiche apparentemente inarrestabili, tutti per nulla marginali, estraggo qui il punto sulla sinodalità. A seguire, le considerazioni corredate del documento citato dal papa e riferimenti. I brani che seguono sono tratti dalla sopra richiamata intervista a La Civiltà Cattolica (19 agosto 2013, pubblicata sul numero del 19 settembre)
[...] «Si deve camminare insieme: la gente, i Vescovi e il Papa. La sinodalità va vissuta a vari livelli. Forse è il tempo di mutare la metodologia del Sinodo, perché quella attuale mi sembra statica. Questo potrà anche avere valore ecumenico, specialmente con i nostri fratelli Ortodossi. Da loro si può imparare di più sul senso della collegialità episcopale e sulla tradizione della sinodalità. Lo sforzo di riflessione comune, guardando a come si governava la Chiesa nei primi secoli, prima della rottura tra Oriente e Occidente, darà frutti a suo tempo. Nelle relazioni ecumeniche questo è importante: non solo conoscersi meglio, ma anche riconoscere ciò che lo Spirito ha seminato negli altri come un dono anche per noi. Voglio proseguire la riflessione su come esercitare il primato petrino, già iniziata nel 2007 dalla Commissione Mista, e che ha portato alla firma del Documento di Ravenna. Bisogna continuare su questa strada». Cerco di capire come il Papa veda il futuro dell’unità della Chiesa. Mi risponde: «dobbiamo camminare uniti nelle differenze: non c’è altra strada per unirci. Questa è la strada di Gesù». [...]
Ora che emerge questa nuova e ulteriore 'fessura', dalla quale potranno derivare ulteriori voragini che solo de fide possiamo non pensare incolmabili, ripropongo quanto avevo espresso con timore e ora si mostra con sconcertante evidenza.
« La X Sessione plenaria della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico fra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa (Ravenna 8-15 ottobre 2007), nel documento sottoscritto intitolato «Le conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa. Comunione ecclesiale, conciliarità e autorità (documento di Ravenna)», pone la reciproca interdipendenza tra primato e conciliarità al livello locale, regionale e universale, per cui «il primato deve essere sempre considerato nel contesto della conciliarità e, analogamente, la conciliarità nel contesto del primato» (n. 43). Questa visione dà una dinamicità al modo di concepire il ministero pontificio in una proiezione verso un futuro che ogni fedele vorrebbe vedere realizzato [!?] ».
Ricordo che il documento di Ravenna - promotore il pluri-citato (dal nuovo papa) card. Kasper - fu accolto con alcune riserve [documentai a suo tempo le perplessità di diverso ordine del Patriarcato di Mosca - vedi il seguito nel 2010 - e anche], mentre ora viene riproposto sic et simpliciter senza remore addirittura dal papa stesso. Esso aggiunge alla collegialità la cosiddetta conciliarità, peraltro nel documento non riferita propriamente al Vaticano II. Tuttavia si corre ugualmente il rischio di riconoscere ad esso, in virtù della collegialità che evoca e che si intende realizzare, una ulteriore funzione costitutiva e fondante una nuova realtà che va a toccare il cuore stesso della Chiesa e della sua identità nella persona del Romano Pontefice. Il problema non è solo sugli evidenti segnali di apertura nei confronti dei "fratelli separati" Orientali, ma anche su quelli nei confronti delle altre confessioni cristiane, che non possiamo di punto in bianco non considerare più eretiche. Appaiono scelte che contengono un messaggio preciso, sia nel senso della collegialità episcopale, sia nel senso dell'ecumenismo. Inoltre il problema non è nell'apertura in sé; ma nel fatto che venga escluso il reditus.

Questioni come questa necessitano di esser prese in considerazione da chi di dovere e meriterebbero una grande smentita dotata della dovuta autorevolezza, per essere incanalate in una visione cattolicamente praticabile. Ma la smentita sarà più difficile che arrivi ora che il Trono più alto - che c'è nonostante la dissoluzione in atto - ha fatto sua l'impostazione evidenziata. Mi limito quindi a richiamare l'attenzione e a lanciare in qualche modo l'allarme, come noi sentinelle vigili siamo chiamate a fare di fronte al silenzio e all'inerzia alimentate anche dagli orditori d'inganni.

È recente l'affermazione del Cardinale Burke nella relazione del 30 settembre scorso [qui] : «... il Sinodo dei Vescovi non ha l’autorità di cambiare dottrina e disciplina. La natura e lo scopo del Sinodo dei Vescovi sono descritti nel can. 342 del Codice di Diritto Canonico [...] Il Sinodo dei Vescovi non è convocato dal Romano Pontefice per suggerire cambiamenti nella dottrina e disciplina della Chiesa, ma piuttosto per assistere il Romano Pontefice nella salvaguardia e nella promozione della sana dottrina riguardante la fede e i costumi, e nel rafforzamento della disciplina per la quale le verità della fede sono vissute nella prassi». Anche se non è stato formalizzato alcun atto che ponga in essere le innovazioni qui richiamate, per cui manca la materia prima della contestazione diretta, il nuovo magistero liquido continua a dispiegare i suoi effetti attraverso la prassi. E dunque a questo punto credo si debba uscire dall'alveo dei Convegni in modo pubblico e organizzato...

2. Conversione del papato (!?)

Riprendo un punto chiave della Evangelii Gaudium, che non esito a definire senza mezzi termini la versione peronista dell' ottimismo "ingenuo" e "aprioristico" di Giovanni XXIII e Paolo VI, senza la mens subtilis di Benedetto XVI, con l'unico effetto positivo di lasciar cadere ogni maschera e di mettere chi è in grado di 'vedere' di fronte ad una allarmante accelerazione della rivoluzione copernicana innescata dalle innovazioni conciliari. La chiesa 2.0, riformata dal Vaticano II, ora prende il largo e sta mostrando al mondo una palingenesi inedita e dirompente, dalle coloriture sociologiche, che tratteggia il suo nuovo volto.
32. Dal momento che sono chiamato a vivere quanto chiedo agli altri, devo anche pensare a una conversione del papato. A me spetta, come Vescovo di Roma, rimanere aperto ai suggerimenti orientati ad un esercizio del mio ministero che lo renda più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione. [le "necessità attuali" non sono subordinate al "significato che Gesù Cristo intese dargli" e quindi viste alla luce e in funzione di esso; ma vengono poste sulle stesso piano ed è facile riconoscervi il rovesciamento di approccio tutto post conciliare: "il vangelo letto alla luce della cultura contemporanea" e non viceversa -ndr]. Il Papa Giovanni Paolo II chiese di essere aiutato a trovare «una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova».[Ut unum int, 95] Siamo avanzati poco in questo senso. [a parte le dimissioni, alle quali sembra si debba fare l'abitudine, ingravescente aetate?] [1]Anche il papato e le strutture centrali della Chiesa universale hanno bisogno di ascoltare l’appello ad una conversione pastorale. Il Concilio Vaticano II ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le Conferenze episcopali possono «portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente».[Lumen Gentium, 23] Ma questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientementeuno statuto delle Conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. [Leggasi collegialità[3] e sue applicazioni, con il conferimento di potestà normativa? Giovanni Paolo II, Apostolos suos] Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria.
33. La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è fatto sempre così”. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità. Una individuazione dei fini senza un’adeguata ricerca comunitaria dei mezzi per raggiungerli è condannata a tradursi in mera fantasia. Esorto tutti ad applicare con generosità e coraggio gli orientamenti di questo documento, senza divieti né paure. L’importante è non camminare da soli, contare sempre sui fratelli e specialmente sulla guida dei Vescovi, in un saggio e realistico discernimento pastorale. [Audacia e creatività paradossalmente non dispiegabili nella direzione di una pastorale tradizionale -ndr]
2.1 Cos'è la conversione 

Si ha conversione quando si passa dallo stato di peccato, cioè dalla perdita della Grazia allo stato di Grazia. E si tratta di un passaggio, che è un'inversione di tendenza, sancisce un cambiamento di vita, un ri-orientamento al Padre. Una volta che si è fatta la scelta fondamentale per Dio e si rimane nella vita di Fede, fortificandosi nella Chiesa. Ed è il percorso successivo, di perfezionamento[6] - che è sempre ulteriore configurazione a Cristo - e per questo è necessario fortificarsi e rimanere nella fedeltà, ma non ancora e sempre convertirsi, a meno che non si inverta di nuovo la rotta.

2.2. In che cosa il Papato dovrebbe convertirsi, invertire la rotta?
Sulle citate parole del papa c'è da chiedersi se si tratta di una promessa o di una minaccia, perché conversione è un termine forte, che designa un cambiamento rivoluzionario non banale e dunque resta da stabilire il perché e in cosa consista questa inversione di rotta per la pastorale, ma soprattutto per il Papato. Che significa? Un giro di boa c'è già stato, con la cosiddetta istituzione del 'papa-emerito' pur in assenza di formule definitorie adeguatamente motivate (Vedi nota 4 tratta da precedenti riflessioni [qui]) e anche quanto sopra evidenziato non può lasciare indifferenti.

Né possono lasciare indifferenti i motu proprio Mitis iudex e Mitis et misericors Jesus, che dovranno entrare in vigore l'8 dicembre prossimo, nella cui parte introduttiva, il Papa giustifica la nuova attribuzione al vescovo come corretta e necessaria applicazione dello spirito del Concilio Vaticano II: siamo di fronte all’applicazione della nuova collegialità dallo stesso introdotta. In più, col pretesto della riforma del processo canonico per la dichiarazione di nullità, di fatto si «fa scadere il matrimonio da sacramento a contratto o ad accordo tra le parti, se la sua validità viene a dipendere dalla buona disposizione interiore delle parti, esemplificata dall’avere o meno (le parti) la fede cattolica autentica» (Paolo Pasqualucci qui). L'assenza di fede è configurata, ex novo, come una delle cause di nullità. Come esaurientemente spiegato da Pasqualucci, un dato soggettivo e non incidente sulle caratteristiche del matrimonio naturale prim'ancora che di quello sacramentale, prende il posto dell'oggettività più che mai necessaria per ogni valutazione seria e fedele agli insegnamenti del Signore. È un dato che può incidere sui frutti e non sulla validità del sacramento; ma se viene inserito tra le cause di nullità, il cambiamento è evidente e sconcertante. Senza dimenticare che il motu proprio oltre a essere privo delle indispensabili motivazioni teologiche, presenta ambiguità ed espressioni vaghe che lasciano al vescovo locale l'apertura ad una ulteriore 'casistica' dettata dalle solite ragioni 'pastorali'. La speranza espressa da illustri canonisti è che gli avvocati canonici si uniscano presto tra di loro per esercitare delle pressioni su Roma, in modo pubblico e organizzato, per ritardare l’entrata in vigore del Mitis Iudex. Quel che è in ballo è nient’altro che la solidità storica e la credibilità della Chiesa Cattolica e del suo insegnamento sul matrimonio. [qui].

3. Conclusione

Le perplessità e le riflessioni non mancano; manca chi di dovere che le esprima con la dovuta autorevolezza. Il nostro allarme deriva dalla consapevolezza che qualunque adeguamento ai tempi operato attraverso 'forme' su essi modulate, porta lontano dalla fontale primazialità del Papato voluta dal Signore. Infatti ogni 'forma' veicola e manifesta una sostanza corrispondente pur se implicita. Difendere la manifestazione della sostanza significa difendere la sostanza stessa, nella consapevolezza che la negazione di una dimensione accidentale rischia di essere un ferimento che la sostanza può sopportare solo fino ad un certo punto.

Al di là delle vicende che si dipanano nella storia, la Gerusalemme celeste scende continuamente dal Cielo nel "Pane vivo" rappresentato da Cristo Signore che è con noi fino alla fine dei tempi.
Diciamo che al momento è oscurata, ma non è di là da venire, è già qui, nella Chiesa e nella sua fedeltà. Le realtà che noi andiamo denunciando perché ci colpiscono e per resistere al sovvertimento non esauriscono la Realtà, così come non esauriscono la Chiesa, che è nelle mani dell'Onnipotente e del Suo Figlio diletto.

Si alzeranno le "voci del coro", per dire che non si tratta di formalismi ma di attentato alle "essenze" attraverso un indiscriminato abbandono e /o sovvertimento della "forma"? Da tutto quanto abbiamo visto e sentito finora sembra si voglia limitare o ridimensionare, se non addirittura negare, il Primato Petrino in favore di una più ampia collegialità episcopale, non più solo consultiva, ma anche autonomamente deliberativa.  E dunque è ormai ineludibile  che le "voci fuori dal coro"  non siano titubanti nell'esprimere e motivare le loro ragioni illuminate dalla Fede perenne.
Maria Guarini
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1. Un sinodo dei vescovi è un istituto parziale e transeunte e non è la stessa cosa del collegio episcopale universale, costitutivo della struttura della Chiesa".
2. Romano Amerio. Iota unum, Lindau 2009, 470
3. H. Rikhof, Il vaticano II e la "collegialità episcopale", 26
4.«Sessanta o settant’anni fa, il vescovo emerito non esisteva. Venne dopo il Concilio. Oggi è un’istituzione. La stessa cosa deve accadere per il Papa emerito [di fatto la figura del 'papa emerito' non è codificata in termini definitori e neppure motivata teologicamente e canonicamente]. Benedetto è il primo e forse ce ne saranno altri...». (dall'intervista al Corriere della Sera)
5. Collegialità introdotta nel Nuovo Codice di Diritto Canonico: «...Perciò il Codice, non soltanto per il suo contenuto, ma già anche nel suo primo inizio, dimostra lo spirito di questo Concilio, nei cui documenti la Chiesa «universale sacramento di salvezza (Cfr. Cost. Dogm. sulla Chiesa Lumen Gentium, nn. 1, 9, 48), viene presentata come Popolo di Dio e la sua costituzione gerarchica appare fondata sul Collegio dei Vescovi unitamente al suo Capo ». [Costituzione Apostolica Sacrae disciplinae leges, 25 gennaio 1983]
6. L'idea di perfezionamento non è peregrina, se Gesù ha detto: "Siate perfetti com'è perfetto il Padre vostro che è nei cieli".

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