martedì 18 agosto 2015

un sudario sporco



Il prete in nero e la morte


Stanno li…inermi, nel ricordo di una cippo marmoreo: i morti del Vajont. Come immobile ad accogliere i turisti si staglia la diga, orgogliosa della propria invincibile saldezza, un’ opera tecnologica perfetta. Ma la natura è prodiga di “ innocenti e terribili astuzie; la montagna è venuta giù, dopo “ripetuti annunci”facendosi beffa dei calcoli. Poi…l’onda si è alzata…cento metri; come un balzo di un felino ha graffiato i costoni dei monti, sollevando il soffio di un gigante sul “villaggio di cartone”. Tutto è stato spazzato via; vite…vite…bambini, bambine, nonne, donne, ragazzi. Con la potenza di due atomiche l’onda e il vento hanno scavalcato la diga e presentato al mondo la macabra contabilità di duemila morti. Tutto ciò che raccontava la quotidiana esistenza; orologi, utensili casalinghi come forchette, cucchiai, monetine, occhiali, vasellame; statue di santi mutilate, povere croci piegate, tutto è stato avvolto nel fango come in un sudario sporco. E in quella tragedia, ancora una volta si è rivelata la nostra condizione. Naufraghi più o meno fortunati di un viaggio chiamato vita. E non sappiamo perché spesso si ha l’impressione la sorte nostra sia scritta da dea fortuna o da dea disgrazia. Chi è fortunato davanti all’altrui tragedia sa benissimo di non meritare nulla ma di dover solo ringraziare qualcuno, che non oso chiamare Dio, perché se così fosse dovremmo udire, per converso, che Dio troppo spesso abbandona i suoi figli e consente infinite tragedie. No! Le cose sono infinitamente più complesse e noi nulla sappiamo. C’è una foto nel cimitero che accoglie le vittime di Longarone e dei poveri paesi cancellati dall’onda. È la foto di un prete, preso di spalle, avvolto nella talare nera; ieratico nella divisa “ d’ordinanza”. Davanti a quest’uomo la cui voce non conosciamo a quest’uomo di spalle, si stende un deserto di detriti e di morte, che rivela la nostra assoluta fralezza. Tanto quest’uomo signoreggia anonimo su tutto quel male, tanto le immagini del potere raffigurate dalle autorità accorse sul luogo della tragedia risultano inadeguate. Segni, il presidente della Repubblica credo, Andreotti, appaiono piccoli e impotenti; come inutile e impotente appare ogni celebrazione dei titoli umani, rispetto alla maestà tragica della morte. Nulla possono le parole, perché una sola morte, per chi ama è una tragedia che scomoda ogni divinità, figuriamoci gli uomini. Ma il prete no! In lui, in quella riconoscibile divisa si staglia come un’idea di vittoria. Non è l’uomo, non è la parola è quella divisa nera che ci ricorda Cristo. Se quel prete avesse indossato un umile abbigliamento da persona qualunque, quella foto non farebbe che accrescere la nostra angoscia. Ma in quel momento, pur senza risposte umane, ho visto, per un attimo il trionfo della vita. Davanti a quell’uomo in nero, anche l’immane tragedia arretra e con essa arretrano tutte le violenze e quotidiane che esigono una risposta. Questo in attesa di un compimento dolcissimo in cielo; dove tutto sarà chiaro.

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