mercoledì 29 aprile 2015

A MESSA NON SI “PARTECIPA”


Alla Messa non si “partecipa”. 

E non si deve “capire”.




ALLA MESSA NON SI “PARTECIPA”
E NON SI DEVE “CAPIRE”
Il silenzio e la solitudine intorno al Golgota intorno all’altare 

Quel vecchio che si sentiva “giovane” davanti al suo Dio. Il silenzio e la solitudine dell’altare. Il Mistero sacrificato alla “comunicazione”… finta. La “gente” non deve “capire”, ma adorare; la “gente” non deve “partecipare”, ma assistere.

Cristo in un attimo di dolore veramente umano, grida a squarciagola al suo Dio, al Padre, il baratro di sventura e solitudine in cui sprofonda inerte. La “solitudine”. La stessa solitudine che in quel momento sull’altare del Sacrificio Supremo, nuovo Golgota, dove davvero e di nuovo irrompe la Passione di Cristo, sperimenta il sacerdote, “Alter Christus”. Il sacerdote è solo sull’altare. E a questa solitudine si aggiunge l’ombra propria della solitudine: il “silenzio”. Sulla collina desolata del Golgota, e prima, nell’Orto, e dopo ancora, nel sepolcro, Cristo è solo e nel silenzio. Il silenzio della sua obbedienza, del calice dell’amarezza, del sudore sanguinolento. È il silenzio dell’impotenza, che per un attimo sembra persino di Dio. “Padre mio, perché mi hai abbandonato?”. Il “silenzio” di Dio, in quel frangente, sembra quasi l’inabissarsi della Divinità.
di  Antonio Margheriti Mastino

QUEL VECCHIO CHE SI SENTIVA GIOVANE DAVANTI AL SUO DIO
Salirò all’altare di Dio,
a Dio che allieta la mia giovinezza …
irraggia la tua luce e la tua verità,
esse mi guidino e mi conducano al tuo santo monte, 
e ai tuoi tabernacoli.
Ti loderò sulla mia cetra, o Dio, Dio mio;
Perchè sei triste, anima mia?
Perchè mi turbi?
E ancora: “Nello stesso modo, dopo aver cenato, prese anche questo glorioso calice nelle sue sante e venerabili mani… Questo è il Calice del mio Sangue, della nuova ed eterna alleanza: mistero di fede: che per voi e per molti sarà sparso…
Il canone antico è di una bellezza che ferisce anche tradotto in italiano, ti fa venire voglia davvero di salire tu sull’altare ad avere il privilegio di rivolgerti con queste parole sublimi ed eterne all’Onnipotente. Ripetere tu ciò che nei secoli hanno ripetuto tutti i santi sacerdoti, i martiri, i confessori, i mistici, i dottori della Chiesa, i pontefici salendo sull’altare del Sacrificio Supremo. Ripetere ciò che tutti i nostri avi hanno udito per secoli, confermandoli nella fede.
 E’ bello divagare, è umano. Adesso per esempio mi balenano davanti agli occhi due episodi. Uno antico e l’altro moderno; uno fa ridere e l’altro piangere, giusto per rispettare il copione della tv generalista. Si sa che la testa della medusa di tutte le eresie moderniste è quel fenomeno chiamato giansenismo, che cominciò velenosamente a fluttuare nella chiesa già dal Seicento. Quel che venne dopo ne furono soltanto i tentacoli pieni di tossine. I giansenisti una cosa l’avevano capita bene: colpire la liturgia significava aprire il vaso di pandora, cavare via la pietra angolare: tutto il Santo Edificio sarebbe venuto giù collassando fulmineo . Ebbene, nel ’700 l’eresia giansenista era entrata nel vivo e si tenne a proposito un “conciliabolo” di prelati infedeli a Pistoia, appunto il “Conciliabolo di Pistoia”. Che approvò motu proprio diverse riforme illecite, fra cui l’introduzione del volgare anche nella liturgia. Allora un prete filo-giansenista iniziò la sua prima messa in italiano (peraltro sbagliando la traduzione) così:
PRETE:”Mi introduco all’altare di Dio“.
FEDELE RISPONDE: (livornese e toscanaccio maledetto): “Oh te tu basta che ‘un t’introduci ‘a nel mi (c)ulo!!”.
Il popolo, quello vero, non quello “sociologico” di cui discettano con sufficienza i teologi modaioli, è sempre reazionario.
L’esempio moderno è meno mordace, ma più struggente. E riguarda la commozione di un giornalista che in piena sarabanda creativa post-conciliare, assiste per caso a una messa antica celebrata quasi clandestinamente da un vecchio e malato francescano. Ne rimase sconvolto: fu l’incontro col Mistero: ne fu convertito. Era il 1969, mentre molti, applauditi da un mondo allora avvelenato di ideologie, celebravano la loro apostasia, un uomo ritornava alla fede davanti alla celebrazione di una messa antica, che era diventata la cosa più bandita della storia della chiesa, dai suoi uomini stessi. Lasciamo a lui la parola, ad Antonello Cannarozzo, parole che mi hanno commosso:
<san Girolamo della Carità, qui a Roma, dove un anziano francescano, padre Coccia, davanti a pochissimi fedeli, celebrava l’antico rito. Rimasi subito colpito dall’atmosfera di mistico silenzio, di partecipazione dei presenti e dalla frase pronunciata dal vecchio sacerdote all’inizio della liturgia, “…et  introìbo ad altare Dei: ad Deum qui laetificat juventutem meam”. Quell’uomo stanco e malato per il mondo, davanti all’altare del suo Signore diventava giovane.
Un atto di fede enorme ed un significato metafisico che mi fece capovolgere in pochi minuti tutto il mio bagaglio mentale, le mie idee, le mie certezze e da quel momento, ogni domenica ed ogni festa religiosa, per quanto mi è stato possibile, sono stato presente alla liturgia di sempre nella ricerca, anche per me, oggi alla soglia dei sessant’anni, di essere sempre “giovane” davanti al Signore>>
IL SILENZIO E LA SOLITUDINE DELL’ALTARE
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Superata la commozione, torniamo a noi. Posso io ogni volta, davanti un bambino dell’asilo che si crede un gigante spirituale, e che discetta della “comprensione” (di tutto quanto ti passa sotto gli occhi nel Tempio) quale primo e unico definitivo dogma, infallibile e incancellabile come il peccato originale, tirare fuori la “barzelletta” di Sant’Agostino? Del bambino (che poi si scoprì essere un angelo) che sulla spiaggia cerca di mettere con una conchiglia nella buchetta che ha scavato nella sabbia l’immensità dell’acqua del mare? E che quindi, morale della favola, solo un pazzo e un cretino può credere che la sua piccola testolina di… rapa, può contenere da sola l’infinito, indicibile, incontenibile, eterno MISTERO? Mistero di Dio, Mistero di fede!
 Ci sono due aspetti in particolare che ci rendono il senso profondo della Messa di sempre: il silenzio e la solitudine. L’altare, prima e durante e dopo il Sacrificio, è avvolto dal silenzio. E dalla solitudine, del celebrante, “Alter Christus”. Ma come, si dirà, la Pasqua e dunque la celebrazione sono “anche un trionfo!”. Certo, sì. Ma è anche il perpetuarsi della passione e morte di Cristo. Che si svolgono nel silenzio, nella solitudine, nel tradimento, nel rinnegamento, nella fuga dei discepoli. Nell’ultima cena Cristo è tradito e venduto da Giuda; nell’Orto degli Ulivi, nella notte che precede il supplizio Cristo è lasciato solo a sudare sangue mentre i discepoli s’addormentano invece di pregare con lui; Pietro nella stessa notte lo rinnega tre volte; nessuno cerca di salvarlo, nessuno gli si offre a sorreggere per un po’ la sua croce (il Cireneo ne è costretto). Nessuno sembra più conoscerlo o riconoscerlo.
Cristo in un attimo di dolore veramente umano, grida a squarciagola al suo Dio, al Padre, il baratro di sventura e solitudine in cui sprofonda inerte. La solitudine. La stessa solitudine che in quel momento sull’altare del Sacrificio Supremo, nuovo Golgota, dove davvero e di nuovo irrompe la Passione di Cristo, sperimenta il sacerdote, “Alter Christus”. Il sacerdote è solo sull’altare. E a questa solitudine si aggiunge l’ombra propria di essa: il “silenzio”. Sulla collina desolata del Golgota, e prima, nell’Orto, e dopo ancora, nel sepolcro, Cristo è solo e nel silenzio. Il silenzio della sua obbedienza, del calice dell’amarezza, del sudore sanguinolento. È il silenzio dell’impotenza, che per un attimo sembra persino di Dio. “Padre mio, perché mi hai abbandonato?”. Il “silenzio” di Dio, in quel frangente, sembra quasi l’inabissarsi della Divinità. Ma è anche l’impotenza e la desolazione che deriva dal primo ed eterno “sì” in obbedienza di Maria, accettando questo Figlio che non era per lei: “Stabat Mater Dolorosa…”, sotto la croce. E’ quel silenzio tremendo che avverte sul letto di morte anche la piccola enorme Teresina di Lisieux, quando si lamenta, in quel momento estremo dell’agonia, della “non presenza di Dio”.
 Silenzio. Come stettero zitti i discepoli, Maria, chi volle bene al Cristo uomo e già Messia, tutti quanti: tacquero, si nascosero, impotenti per obbedienza e per viltà, persino impietriti dal dolore e dalla confusione, o perché in definitiva così “dovevano” andare le cose… tutti stettero in silenzio. ASSISTETTERO SOLTANTO, alla passione e morte del figlio di Dio. La stessa ragione per cui alla messa del Sacrificio, i fedeli NON DEVONO PARTECIPARE, MA ASSISTERE. In silenzio. Il silenzio che ammanta il sacerdote mentre compie il Sacrificio di Cristo. E di se stesso.
Ma allora la Resurrezione? E’ un trionfo. Ma è un trionfo vissuto nel nascondimento, da un Dio senza arroganza. Avviene ancora una volta nel silenzio e nella solitudine. Dentro un sepolcro di pietre, di notte, assenti tutti, tranne i soldati chiamati a vegliare l’esterno dell’avello. Alla stessa maniera, nel silenzioso, quasi segreto e oscuro, formulare del sacerdote “Alter Christus” sull’altare del Sacrificio, avverrà la Resurrezione. Nel silenzio e nella solitudine.
Ecco spiegato il perché e il come si sta, si assiste al Santo Sacrificio della Messa. La Messa di sempre. Lontana dal clamore e dal chiasso, dalla frenesia e dalle sindromi di protagonismo, dai microfoni mal regolati gracchianti e stordenti, dal profluvio di fraseologia frigida e dai battimani della Messa riformata in stile anni ’70, gli anni più stancamente declamatori, populistici, inutili mai vissuti sulla faccia della terra.
IL MISTERO SACRIFICATO ALLA COMUNICAZIONE. FINTA.

Talora dove è stata celebrata la Messa gregoriana per la prima volta, ho avuto nettissima l’impressione che i molti presenti, fra curiosi e interessati, si siano accostati a questo culto divino, altamente spirituale, drammatico, con lo stesso animo con cui si accostavano alla maggiore liberalità (e pure licenza) della Messa riformata. Non ci si può assistere alla Messa gregoriana come si assiste a quella riformata. E’ successo in qualche prima Messa antica in qualche provincia del Sud.
Io sinceramente mi sono scandalizzato. Ho visto roba che mai e poi mai, nemmeno per un secondo, ho osservata a Roma durante le Messe gregoriane. Ma solo nelle messe ordinarie. Sbadigli no, ma parlucchiare in continuo anche durante i momenti salienti del rito, questo sì, anche al cellulare; ma è il meno peggio. Infatti una cosa regolarmente registrata nella messa ordinaria, ma mai a Roma in quella antica: gente, uomini specialmente, che non risponde alle preghiere liturgiche le volte (poche, nella Messa antica) che è richiesto, figurarsi se si batte il petto al “Confiteor”; che non si inginocchia mai (è previsto molteplici volte nel rito antico), manco a spezzargli le gambe, nemmeno durante la consacrazione. Mentre alla Trinità a Roma (chiesa dei cattolici che celebrano solo in rito antico) ho visto con i miei occhi gente inginocchiata ovunque, tutti nessuno escluso, anche sul pavimento per chi non aveva il banco, almeno durante la consacrazione; qualcuno si è spinto fino all’eccesso di osare prostrarsi con la fronte a terra, senza che nessuno, del resto, trovasse ridicola la cosa.
Due cose sono certe. La prima cosa che si è smarrita nel più dei casi, negli ultimi tempi, è proprio l’educazione al Culto Divino. E all’Essenziale. A forza di annacquare l’ufficio sacro e lo stesso messaggio cristiano, si è annegato il senso del sacro, del divino, del Mistero nella liturgia. Tutto è stanchezza e sbadiglio, ogni cosa scontata. Si è sacrificato il “significato” alla “comunicazione”; il simbolo evocativo ed esoterico al gesto amicale e sdrammatizzante; l’insondabile al “comprensibile”. Insomma si è umanizzato tutto, come se il culto fosse diretto agli uomini e non ascendente verso Dio solo.
Il “comprensibile”. Ma la stessa maestà di Dio è solo in minima parte svelata e “comprensibile”: volendo “capire” tutto, non si capisce più niente, ed è così che si sminuisce e stempera all’orizzonte la divinità, il cui mistero, ci spiegava Agostino, mai per intero la nostra mente avrà tanta capienza per accoglierlo totalmente.
La stessa Messa del Sacrificio supremo è diventata la messa della parola, degli sproloqui “sociali”, quando non proprio socialisti, dal pulpito: prova ne sia il fatto che spesso, nella Messa riformata, le omelie durano anche 35 minuti, la consacrazione anche solo 2 minuti. Si è smarrito il senso delle cose importanti, non si conosce più cosa è al centro e cosa accanto o sotto; si sono rovesciate anzi le posizioni. Nella Messa antica, il centro era e resta il Sacrificio. L’omelia può esserci o no, e se c’è dura 5 minuti, e non va oltre le Scritture del giorno.
L’altra cosa chiara, è che occorre davvero ricominciare anche con gli ottantenni il catechismo da capo, dalla prima elementare, ma quello vero, duro, scandaloso, che spacca le pietre e gli uomini. Bisogna ricapitolare tutto, reinsegnare tutto, perché tutto è andato smarrito nella nostra memoria di cattolici romani. A volte crediamo che siano la Chiesa, la dottrina, il deposito della Fede ad essere mutati. E non ci accorgiamo invece che qualcuno ha fatto un foro nel nostro cranio da cui son colati via secoli di sapienza cristiana. E siamo noi che non riconosciamo più Cristo nel culto, che abbiamo dimenticato chi era, cosa ha detto veramente, cosa è la Messa. Con questo abbiamo scordato pure chi siamo e chi erano i nostri padri, e cosa per due millenni ha legato una generazione all’altra: la Pietà.
Nella Messa come Sacrificio restiamo legati alla memoria della preghiera di chi ci ha preceduti nella vita terrena, di coloro che per secoli hanno adorato Dio in quel solo modo; abbiamo perduto anche la memoria dei santi e dei martiri, che si sono santificati in essa e per essa si sono sacrificati. La comunione dei santi. Abbiamo smarrito l’idea di Messa come irruzione del Divino ora e subito sull’altare. Abbiamo scordato il Dio potente, eterno e quotidiano. Occorre ricatechizzare. Quando di nuovo qualcuno risulterà scandalizzato dal messaggio di frattura di Cristo, allora vorrà dire che il seme è stato un’altra volta gettato nella terra. Presto darà frutto. Riempendo di germogli intere distese aride come la morte del culto nel cuore dell’uomo.
 Che a dirla tutta, qua il problema non è manco più la liturgia antica e la liturgia nuova, perché ormai è un dato che la liturgia nuova, come corpo omogeneo, non esiste più. Semmai ci sono tantissime liturgie, a secondo della nazione, della regione, della sensibilità del vescovo, dell’ideologia del parroco, dall’ignoranza tirannica dei gruppi laicali sindacalizzati, a secondo dell’umore, del tempo, del telegiornale del giorno, dell’età dei presenti, a secondo di tutto meno che di Dio. E talora si ha l’impressione che, per liturgia “riformata”, molti intendano quel termine proprio nel senso di riforma luterana. Qui c’è la liturgia di sempre, quella gregoriana, contro il tutto e il nulla, contro l’arcipelago creativo semper reformandum est, dove la liturgia oltre ad essere sempre in fieri è anche l’ultimo pensiero del clero socialmente utile.
 LA GENTE NON DEVE CAPIRE, MA ADORARE
LA GENTE NON DEVE PARTECIPARE, MA ASSISTERE

Dopo una prima Messa gregoriana, un signore piuttosto informato, di sicuro tradizionalista, comizia a un gruppo di fedeli un po’ smarriti: spiega loro cose che dovrebbero essere normali da almeno 1.300 anni, ma che dalle facce inebetite dalla novità della scoperta dell’acqua calda, ti rendi conto non lo sono più. Questo rigoroso cattolico è preciso, spiega ineccepibilmente e con passione e mimica tutta meridionale l’evento Sacrificio della Messa. Soprattutto, si sofferma sulla figura del sacerdote rivolto di spalle, quale Alter Christus. “Il sacedote è rivolto di spalle ai fedeli, perché pone il cuore e l’attenzione ad Oriente, verso Dio. Ha quasi quasi il compito, quale mediator Dei, di introdurre, guidandolo, il popolo alle sue spalle verso la Divinità… Sia mai si pensasse che il sacerdote si deve rivolgere al popolo durante la messa come fosse il destinatario delle formule… come di fatto sembra avvenire nella messa nuova”. A quel punto interviene un suo interlocutore, con la barba e l’aria un po’ sofferta da insegnante ulivista, che non lo contraddice, ma introduce un concetto pericoloso, che nasce più dall’ignoranza che non da influenze protestanti. Dice: “Ma se vogliamo il prete e il popolo sono un tutt’uno, sono un unico popolo di Dio che condivide e concelebra il culto… c’è come un sacerdozio di tutto il popolo di Dio”. Lo dice inconsapevolmente, ed eccettuata la logica del sacerdozio d’ogni cattolico col battesimo (che nulla ha a che fare con la Messa del Sacrificio), introduce concetti che prima ancora d’essere protestanti e luterani, demoliscono e rendono inutile, uno spreco, la figura del sacerdote consacrato.
Due anziane signore: “La messa in latino [sic!] è bella, ma io non scambierei la messa in italiano con niente. La gente deve capire quello che si dice, e qui io non capisco. Io non ci ritornerò più a questa messa!”. Volevo domandare cosa veramente capiscono della formulazione italianissima della messa anni ’70. Se veramente capiscono quella asettica talora sospetta fraseologia che nasce non da secoli di sapienza cristiana, ma dalle nebbie delle menti di teologi luterani senza più speranza cristiana, e come dimostreranno di lì a poco con veri dubbi di fede.
La “gente deve capire”, dice. No, la gente non deve “capire” una mazza durante la Messa. La gente deve stare zitta e ferma. La gente non deve “partecipare” o addirittura “concelebrare”. La gente in chiesa non è “gente” ma fedeli! E questi fedeli devono solo ASSISTERE. E assistendo muti, devono solo adorare. E’ la ragione per cui, nella Messa antica, era consentito al fedele, nelle parti orali del rito che spettano solo all’Alter Christus, di recitare silenziosamente il rosario. Zitto, il fedele ASSISTE: anzitutto perché le formule di consacrazione che il sacerdote recita, “submissa voce”, sono scambiate solo fra il Mediator Dei, che solo si carica il peso del popolo fedele (ecco anche uno dei significati del manipolo) e Dio, anzi fra l’Alter Christus e Dio. Solo, il sacerdote solo, perché solo Gesù parla e istituisce l’eucarestia nell’ultima cena. Solo vive il terrore, la passione, la morte e la resurrezione. Solo, perché solo a ciascuno dei discepoli, singolarmente, concede dopo la sua morte che vince la morte, d’essere Alter Christus, davanti l’altare di ogni ultima mistica cena e di immolazione.
Capire”, mi si dice. Non si può capire, non si deve osare capire. Il cuore soltanto deve comprendere essendo in quei momenti rivolto a Dio, “coram Deo”. O comunque vi si deve partecipare (visto che insistete!) con tutti e cinque i sensi, non solo con il cervello. Chi assiste al Sacrificio Supremo non deve “capire”, deve anzi restare ammutolito e fermo, ASSISTERE inerte, sbigottito, col tumulto nel cuore. Deve credere e adorare. Si ASSISTE soltanto: perché neppure alle ore di passione di Cristo, alcuno “partecipò”; neanche davanti al Golgota in diretta, allora, nessuno del tutto capì; neppure trascorsi gli eventi ancora “capirono” e anzi la loro fede vacillò di più. Il terrore prese lo stesso posto della “comprensione”. Neppure Pietro capì di cosa sino ad allora si era parlato, cosa veramente Cristo aveva detto. Nessuno capì, popolo di peccatori, umanità decadente senza cognizione della propria redenzione.
E infatti, fu, quella, notte oscura di tradimenti, di silenzi assordanti, di solitudine, di sudore di sangue, di indifferenza, di fughe, di viltà, di rinnegamento, di peccato e di pentimento, di suicidi. Di impotenza e di oscurità. Di solitudine. Nessuno stette al suo posto, nessuno si fece avanti, nessuno capì davvero. Tommaso volle metterci anche dopo il dito, perché non aveva capito manco lui. Tutti, i discepoli in primis, e Giovanni e Maria e gli amici di Gesù, chi insomma gli era vicino, nessuno “partecipò”; ognuno invece “assistette”. Inerte, muto, impotente. ASSISTONO. Non “capiscono”, non completamente almeno.
Il Sacrificio stesso fu sì fatto da altri, dagli infedeli, ma paradossalmente sembrò (e così era) che Cristo stesso se ne incaricasse, e difatti egli stesso lo annuncia: quasi un consapevole auto-sacrificio. Sì, perché Egli accetta consapevolmente, va incontro da solo alla volontà del Padre sapendo qual è. Si carica da solo, sulla viva carne, il peso di una umanità ancora irredenta, del “popolo”, che fin lì non ha “capito”: ha visto e non ha “capito”. Come non potranno “capire” (mai!) veramente il Sacrificio della Messa. È lo stesso motivo della solitudine e del silenzio (submissa voce) del sacerdote sull’altare, dell’Alter Christus che sacrifica se stesso nell’eucarestia. E’ la ragione del Mediator Dei che nella messa di sempre da solo e silenziosamente, si rivolge al Padre, assumendosi da solo il peso del popolo di Dio, che non potrà aiutarlo in alcun modo. Assisteranno soltanto i fedeli, come i discepoli assistettero senza partecipare, alla passione. Col manipolo l’Alter Christus asciugherà il sudore di sangue della lacerante fatica della sequela di Cristo, d’essere Lui fino alla morte e alla morte di croce, sino alla resurrezione silenziosa e segreta, discreta come il Dio dei cristiani, il nostro silenzioso Dio. Tutto è Mistero. Tutto è Grazia.
Per tutte queste cose i fedeli non devono “capire” né “partecipare”. Avranno invece l’obbligo solo di assistere, stando in silenzio, coram Deo, adoranti, impotenti. Salvi! Ma occorre si affidino cuore e intelletto, tutti, al Mediator Dei, all’Alter Christus. Non tentino di “capire”: non capirebbero comunque. In ognuno di noi c’è sempre un po’ di Giuda il traditore, del Pietro rinnegatore che non aveva capito niente, del Tommaso che non crede se non vede anche se ha assistito al compiersi della profezia. In tutto questo la Messa di sempre è altamente istruttiva, profondamente spirituale, immensamente fedele allo svolgersi dei fatti nei dintorni del Golgota. Perché è principalmente Sacrificio. Qualità che la declamatoria e chiassosa, logorroica e “svelata” messa anni ’70 non ha più. E anzi, devia il fedele più che indirizzarlo rettamente.

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