mercoledì 18 febbraio 2015

Il perdono ha effetti talmente salutari sul benessere psicofisico ....

IL PERDONO, UN ATTO DIFFICILE, 

MA NECESSARIO
Giovanni Cucci S.I.
La Civiltà Cattolica 2015 I 142-156 | 3950 (17 gennaio 2015)

«Il perdono ha effetti talmente salutari sul benessere psicofisico di chi lo elargisce da essere generalmente ritenuto auspicabile anche a fronte di offese estremamente gravi, tra cui l’abuso sessuale e la violenza fisica» 

Perché perdonare? Dopo aver affrontato la problematica della colpa e del peccato 1, intendiamo ora occuparci, secondo le medesime modalità di un approccio soprattutto filosofico e psicologico, del tema a essi speculare — e altrettanto importante — del perdono. E, questo, non perché altri aspetti siano superflui — pensiamo all’importanza che esso riveste in ambito spirituale e religioso —, ma perché la presa di consapevolezza dei sentimenti in gioco, la rivisitazione della propria storia personale e la capacità di immedesimazione con l’altro rimangono passi fondamentali anche per accogliere la dimensione trascendente e religiosa del perdono. Pensare diversamente, sarebbe ridurlo a una pratica ipocrita o superficiale, che non tocca il cuore. San Tommaso d’Aquino ricorda che la grazia di Dio lavora sulla natura, non è magia, un materiale sopraggiunto o un corpo estraneo 2 . La conoscenza di sé rimane sempre un passo previo fondamentale anche per la vita spirituale. La necessità di questo approccio diversificato è data proprio dalla delicatezza della problematica che, come le precedenti, rischia di essere fraintesa o inflazionata, così da essere ridotta alla fine a qualcosa di superfluo. La nostra società sovrabbonda di discussioni e dibattiti sul pentimento e sul perdono, ma, come spesso accade in questi contesti, quanto più si parla di un termine, tanto meno ne risulta chiaro il possibile significato; anzi, in questa molteplicità si annidano incomprensioni e pregiudizi che ne rendono difficile, prima ancora dell’attuazione, la stessa comprensione. Perché, ad esempio, si dovrebbe perdonare? Perché non limitarsi a evitare la vendetta? Perdonare significa rinunciare alla giustizia? Non è una forma di debolezza malata, come direbbe Nietzsche 3 , o di giustificazione del male, azzerando tutto? In questo modo non si penalizza chi si sforza di essere coerente e giusto? Ma, soprattutto, il perdono cambia davvero qualcosa? Queste sono solo alcune delle possibili domande che spesso stanno alla base di controversie interminabili, che puntualmente si riaccendono in occasione di eventi efferati di cronaca nera. Il perdono di solito viene considerato negativamente, ma ciò che si rifiuta è per lo più una sua pallida caricatura. Chi lo ha praticato — nelle modalità che si cercherà di mostrare — ne ha invece sperimentato la potenza a livello individuale, relazionale, sociale e politico. Esso resta un atto libero, non dovuto, e difficile, perché non è una sorta di bacchetta magica capace di annullare il male e di riportare tutto come prima. Il perdono è anche molto più complesso della parola con cui lo si accorda: si tratta di un processo lento, che richiede tempo, fatica, e soprattutto la capacità di accogliere i propri sentimenti e di accedere a un mondo differente dal proprio, riconoscendo che non tutto è così chiaro ed evidente come si supponeva, e che gli avvenimenti e le persone non possono essere rappresentati in termini antitetici, di bianco/nero. Ma questo gesto riguarda tutti. Anche se non ci si trova coinvolti in fatti terribili, il ritmo stesso della vita ordinaria, le relazioni, le diversità e i fallimenti che la caratterizzano ripropongono in continuazione questo tema. Agire è esporsi alla possibilità di compiere o subire il male.

La forza del perdono

Il perdono, se inteso rettamente, costituisce una delle protezioni più potenti di cui l’uomo dispone per fronteggiare il male e le sue conseguenze. Quando esso non viene messo in conto, ci si tormenta in maniera molto più crudele, fino a distruggersi, come appare dalle analisi compiute in precedenza a proposito della colpa e del peccato e mostrate anche dalla letteratura di ogni tempo e dall’esperienza di ciascuno: quanti sono dilaniati dai sensi di colpa per ciò che hanno compiuto? Quanti invece si tormentano da sé per il male ricevuto da altri, lo rievocano in continuazione, avvelenandosi sempre più? Il perdono non è affatto qualcosa di semplice e di immediato: conosce livelli differenti, esige una integrazione cognitiva, affettiva e relazionale. Per questo è così difficile, e spesso richiede il supporto di un aiuto specifico, se non altro per dissipare eventuali malintesi. Ma quando si decide di percorrere questi passi, diventa possibile spezzare catene che tenevano avvinti da anni, catene che, per lo più, sono state fabbricate da noi stessi. Per questo è così faticoso liberarsene. Il perdono è espressione di libertà, forse la più alta, proprio perché imprevedibile e inscrutabile. È difficile capire perché qualcuno decida di perdonare, mentre possono apparire comprensibili le motivazioni di chi rifiuta di accordare questo gesto, anche per piccoli sgarri. Questo atto rinvia al mistero della persona e smentisce l’interpretazione dell’agire umano all’insegna del principio stimolorisposta di tipo deterministico: «Diversamente dalla vendetta, che è la naturale, automatica reazione alla trasgressione […], l’atto del perdonare non può mai essere previsto; è la sola reazione che non si limita a re-agire, ma agisce in maniera nuova e inaspettata» 4 . Un tema recente È strano che una questione così importante della vita umana sia stata per lo più disattesa dalla ricerca psicologica e psicanalitica, al punto che il termine stesso non compare quasi mai nel corpus degli scritti freudiani. Parlare di perdono significa infatti superare un’impostazione antropologica materialistica, come quella di Freud, e avventurarsi su campi inesplorati, analogamente a quanto è accaduto per altre tematiche pur fondamentali per la vita, di cui solo di recente si è riconosciuta l’importanza per la stessa pratica terapeutica, come la speranza, la gratitudine, l’altruismo, che non a caso sono estremamente connesse con il perdono. Le cose sembrano essere cambiate a partire dagli anni Ottanta, in seguito alla pubblicazione negli Stati Uniti di un saggio di teologia — Forgive and forget, di L. Smedes — che analizza gli effetti benefici di un tale atto anche dal punto di vista psicologico, fisico e mentale. Da allora la letteratura in proposito ha conosciuto un notevole incremento. Questo libro ha saputo catalizzare un crescente e fecondo dibattito sul tema del perdono da parte della ricerca psicologica, fino all’elaborazione di concrete proposte terapeutiche per un percorso di perdono e di riconciliazione, da compiersi attraverso passi e tappe verificabili concretamente, riconoscendone l’importanza anche in prospettiva più generalmente antropologica 5 . Il perdono ha difatti una valenza importante in ordine all’identità di sé, consentendo di vedere in maniera differente la propria storia, le relazioni, gli avvenimenti dolorosi dell’esistenza. Si può perdonare, perché si è fatta l’esperienza di essere stati perdonati: «Lasciare che l’altro mi perdoni [...] non è meno difficile del perdonare. Lasciarsi avvolgere dal perdono dell’altro spesso è un’esperienza che lascia turbati. Fa scoprire e toccare da vicino il proprio limite, il proprio egoismo e per questo con difficoltà viene vissuto in tutto il suo potere sanante. Eppure l’esperienza dell’esser perdonato, del sentirsi perdonato fa parte della vita fin dall’infanzia e niente è più incoraggiante che avere la certezza di poter ritornare nel cuore dell’altro» 6 .
Da qui il suo incredibile potere risanatore, anche per chi ha sofferto le situazioni più tremende: «Il perdono ha effetti talmente salutari sul benessere psicofisico di chi lo elargisce da essere generalmente ritenuto auspicabile anche a fronte di offese estremamente gravi, tra cui l’abuso sessuale e la violenza fisica» 7 .


Cosa non è il perdono 
Come si accennava, il contesto del «perdonismo» con cui, in occasione di eventi di cronaca, con troppa facilità si entra in merito a questa tematica non contribuisce a rendere giustizia alla complessità di tale gesto, che rischia di essere ridotto a una sorta di parola magica. Per questo è anzitutto importante dissipare alcuni possibili equivoci. - Il perdono è contrario alla giustizia. In realtà, perdono e giustizia sono modalità differenti: il primo è essenzialmente interiore, la seconda è esteriore e interpersonale. Il perdono riguarda i sentimenti, le emozioni e le valutazioni interiori, la giustizia l’aspetto giuridico e istituzionale. Per questo è possibile ottenere giustizia senza perdono, e perdono senza giustizia. - Non mi sento di incontrare quella persona. Dietro questa valutazione vi è la tendenza, abbastanza diffusa, a confondere perdono con riconciliazione. Anche in questo caso si tratta di processi diversi, perché la riconciliazione, come la giustizia, concerne l’ambito esterno e interpersonale, a differenza del perdono. Riallacciare i rapporti con l’offensore costituisce un gesto successivo, che certamente può completare il processo del perdono, ma non coincide con esso. Anzi, senza un lavoro previo sui propri sentimenti, in particolare sulla rabbia, c’è il rischio di una riconciliazione forzata, superficiale, che porta a inasprire ulteriormente il rapporto, allontanando, piuttosto che avvicinare, le persone. In secondo luogo, non è detto che il perdono venga accolto: spesso un tale atto viene rifiutato, sia perché l’altra parte non si riconosce nel ruolo di «offensore», sia perché può scorgervi una sottile forma di vendetta nei propri confronti. Parimenti, la parte lesa può respingere la riconciliazione, perché teme che un tale gesto possa essere interpretato come una sorta di approvazione del comportamento del colpevole, il quale potrebbe sentirsi autorizzato a ripeterlo nuovamente. In altri casi, la riconciliazione non è materialmente possibile, perché la persona non è più presente (lontana fisicamente o deceduta), o per il concreto timore che la ricostituita vicinanza possa riattivare vissuti troppo forti per l’offeso, specie se si sono verificati episodi di violenza, di minacce, di forte contrasto, ragion per cui l’incontro potrebbe riaprire ferite profonde, esasperandole e aggrovigliando ancora di più la situazione. Ciò non significa che il perdono non possa anche tradursi in un tentativo di riconciliazione. In ogni caso, questo avverrà in un momento successivo, che esige una esplicita richiesta di perdono da parte dell’offensore come passo previo: richiesta che può risultare ulteriormente credibile, qualora siano stati messi in atto gesti concreti per riparare al male compiuto. - Se mi vendico, starò meglio. Si tratta di un pregiudizio frequente in coloro che decidono di rifiutare il processo del perdono, ritenendolo — come notava Nietzsche — una rinuncia alla propria dignità, ai propri diritti, che invece verrebbero riaffermati da quella sorta di giustizia fai-da-te che è la vendetta. In realtà, la predisposizione d’animo ispirata alla vendetta conduce a coltivare atteggiamenti — come il risentimento e la ruminazione interiore — che avvelenano l’animo della persona, esasperandola, fino al punto di non riuscire più a trovare soddisfazione nella vita: «Il “regolamento di conti” che la vendetta promette è spesso più apparente che reale, poiché la perpetrazione di un torto crea una situazione di ingiustizia e disequilibrio che le vittime percepiscono non essere completamente compensata da atti di rivalsa» 8 . Difatti il senso di pacificazione interiore, proprio del perdono, non è paragonabile ai sentimenti provati da chi ha vendicato un torto subìto. Il primo è pacificante, il secondo distruttivo. Si tratta di una differenza confermata, anche sperimentalmente, a proposito del rancore e del risentimento. Rancore, odio sono atteggiamenti distruttivi anche sul piano della salute: tendono a far aumentare la pressione sanguigna, causano stress e pericoli di tipo cardiaco, sono alla base di disturbi psicosomatici legati alla tensione e alla ruminazione interiore (gastriti, ulcere). La decisione di perdonare, invece, si fa sentire anche sotto l’aspetto somatico/biologico. Nel momento in cui ci si pone in questo diverso atteggiamento, si percepisce un cambiamento interiore, avvertito anche a livello corporeo. La letteratura ha spesso mostrato come la vendetta, anche se realizzata con successo, porti a scoprire aspetti inediti del presunto colpevole, soprattutto la sua fragilità e umanità. In ogni caso, essa non reca mai la soddisfazione sperata, ma ulteriore sofferenza e dolore. In questo modo, infatti, non si raggiunge né sollievo né giustizia, ma il rimorso e la sensazione di non essere stati molto diversi da chi si è voluto punire. L’odio accumulato e coltivato nel tempo può diventare una vera ragione di vita. Ne ha offerto una brillante descrizione A. Dumas nel romanzo Il conte di Montecristo, il cui protagonista, ingiustamente condannato a una terribile reclusione, riesce a realizzare alla perfezione il suo progetto di vendetta, salvo poi alla fine riconoscere che le cose non stavano come egli aveva immaginato, soprattutto circa una possibile soddisfazione: punire i colpevoli non soltanto non lo ha reso felice, ma ha coinvolto anche altri innocenti, in particolare i parenti e gli amici delle vittime. La vendetta non allevia la sofferenza, né è in grado di assicurare la giustizia pareggiando i conti, ma avvelena ulteriormente, distruggendo se stessi e altri, anche perché tende a far smarrire il senso della misura, aggiungendo ingiustizia a ingiustizia. La percezione dell’accaduto da parte dei protagonisti — «colpevole» e «vittima» — è difatti molto differente, ed è alla base delle resistenze a perdonare. La vendetta non è in grado neppure di ristabilire il senso dell’onore, come suppongono le culture che tendono a sacralizzarla, ma rimane sempre un abuso di potere, una perdita di credibilità9 . - Non posso perdonare, provo ancora rancore. Il perdono suppone come condizione previa la chiarezza circa il proprio sentire, insieme alla capacità di esprimerlo, di metterlo in parole, prendendosi un lasso di tempo sufficientemente ampio per la sua realizzazione. Dare voce alla rabbia e alla protesta per la sofferenza subita è il primo passo, indispensabile per poterne compiere altri, un passo obbligatorio per il processo del perdono. Questi sentimenti possono coesistere nella persona, perché non si tratta di giungere all’indifferenza o all’oblio. È altrettanto importante guardarsi da una concezione magica del perdono, quasi che sia sufficiente pronunciarne la parola perché esso venga accordato: in realtà non si tratta di un atto concluso una volta per tutte. Se questa attesa illusoria non viene esplicitata e chiarita, può dare adito a ulteriori equivoci, che complicano piuttosto che risolvere il conflitto. - Non riesco a dimenticare. Perdono e dimenticanza sono atteggiamenti completamente diversi: il primo è un atto volontario, il secondo involontario. Prescrivere la dimenticanza è come dire: «ricordati di dimenticare». Un simile atto risulta, oltre che contraddittorio, anche dannoso, perché porta all’effetto contrario, rafforzando la memoria dell’avvenimento. È ciò che in psicologia viene chiamato «intenzione paradossale», in cui la proibizione di un evento favorisce il suo insorgere. Se, ad esempio, si chiede a un gruppo di persone di non pensare a un elefante rosa, è facile supporre che, proprio in forza di tale ingiunzione, quell’immagine si presenterà alla maggior parte di esse. Si può invece invitare a non coltivare gli atteggiamenti che rendono più difficile il perdono: il rancore, la rimuginazione, l’odio, per sostituirli con altri atteggiamenti più positivi. La dimenticanza, a differenza della memoria, non è frutto di una decisione; per questo non ha rilievo dal punto di vista del perdono: se l’episodio fosse stato realmente dimenticato, non ci sarebbe più nulla da perdonare. Il perdono nasce invece dalla constatazione di qualcosa che fa soffrire perché ritenuto ingiusto, e dalla ricerca di una modalità differente di affrontare la situazione. - Il perdono è una forma di debolezza. In realtà, esso è esattamente il contrario. Può perdonare solo chi è interiormente forte, chi ha saputo dare spazio a sentimenti e atteggiamenti che consentono di affrontare e apprezzare la vita, come l’empatia, la ristrutturazione cognitiva, il desiderio, la benevolenza. Essi sono indice di una libertà interiore che sfugge al meccanismo di stimolo-risposta, proprio del bambino e delle reazioni emotivamente primitive, ma sa considerare quanto accaduto da un punto di vista più ampio e complesso, notando cose nuove. - Deve soffrire per ciò che ha fatto. Dietro questa affermazione c’è la credenza, erronea, che rifiutare il perdono sia una maniera di punire l’altro. In realtà accade esattamente il contrario: in tal modo si punisce solo se stessi, torturandosi e impedendo a se stessi di vivere. Non perdonando, ci si illude di esercitare un potere sull’altro, ma di fatto ci si amareggia senza pietà. Cedere questo potere è consentire a se stessi di ricominciare a vivere, di percorrere nuove strade; forse si comincerà anche a capire che l’altro è molto differente da come la fantasia lo raffigurava. Perdonare è in definitiva un esercizio di realtà, che può far bene all’altro, ma soprattutto a se stessi. Una ricerca compiuta da J. Maselko, dell’Università di Harvard, su un campione di 1.500 persone di età compresa tra i 18 e gli 89 anni ha rilevato una stretta associazione tra contentezza, benessere e perdono: «Chi riesce a perdonare è meno esposto al rischio di sviluppare sintomi depressivi, si confronta con ridotti livelli di stress, ha in media una pressione arteriosa più bassa» 10. Ma che cosa significa perdonare?

Possibili definizioni di perdono

M. McCullogh ed E. Worthington, curatori delle più importanti pubblicazioni al riguardo, definiscono il perdono, dal punto di vista psicologico, come «un insieme di cambiamenti motivazionali per mezzo dei quali un individuo diventa 1) sempre meno motivato a vendicarsi contro la persona conosciuta che l’ha ferito; 2) sempre meno motivato a estraniarsi da lei; e 3) sempre più motivato a essere benevolo e conciliatorio nei suoi confronti, nonostante le sue azioni offensive». Una definizione simile parla di mutamento nei confronti del proprio vissuto interiore, modificando sentimenti negativi di ostilità e propensione alla vendetta in atteggiamenti di comprensione, compassione e amore. Altre definizioni fanno leva su un cambiamento interiore che si traduce in un mutato atteggiamento verso l’offensore: dall’ostilità alla predisposizione alla compassione e a un più generale sguardo positivo 11. In queste definizioni si possono notare almeno due direzioni uguali e contrarie: una direzione verso di sé, e una verso l’offensore, esplorando i sentimenti e le valutazioni suscitati da quanto accaduto. L’atto di perdonare richiede a monte di assumere e fare propri, senza evitarli, i sentimenti spiacevoli che hanno accompagnato l’offesa. Si tratta anzitutto di riconoscere la rabbia e la sofferenza provate, senza censurarle, dandone espressione verbale, gestuale e corporea, anche con l’aiuto di qualcuno capace di ascolto e di accoglienza. Ciò consente di rivisitare questi sentimenti, attenuandone la distruttività, impedendo che essi degenerino in risentimento e odio; così la rabbia, da nemica che avvelena l’animo, può diventare un alleato prezioso, capace di aiutare il soggetto nelle future situazioni di contrasto. Non si tratta dunque di dimenticare, come si notava, ma di agire sulla memoria, cercando soprattutto di non identificare la persona con le sue azioni e di imparare a leggerle dal punto di vista dell’altro. Quando ci si appresta a questo lavoro, l’evento stesso inizia a suscitare sentimenti differenti: non solamente negativi (risentimento, rancore, odio), ma costruttivi, più aperti alla vita (comprensione, empatia, compassione). Riprendendo i risultati delle ricerche più recenti, si possono individuare tre distinte componenti nel processo psicologico del perdono: 
1) l’evento stesso, il male subìto da altri a vari livelli, ciò che lo ha generato nelle sue concrete modalità e conseguenze; 
2) il riconoscimento di una sofferenza causata da questo e la necessità di  elaborarla adeguatamente, dando spazio ai sentimenti che essa suscita; l’entità di questa sofferenza è legata, oltre alla gravità materiale dell’atto, anche al tipo di relazione esistente tra offensore e vittima; 
3) la personalità di chi ha subìto l’offesa. Quest’ultimo aspetto risulta il più importante nell’elaborazione del perdono. Esso è anzitutto un processo intrapsichico che richiede la disponibilità a un lavoro interiore sui propri sentimenti e vissuti. Con il termine «personalità», anche limitandosi al mero ambito psicologico, si intende qualcosa di estremamente complesso. Si possono riconoscere soprattutto tre livelli che sembrano essere particolarmente significativi per la predisposizione al perdono. A un primo livello, è possibile evidenziare i tratti, gli elementi strutturali di una personalità, che possono essere ricondotti soprattutto a cinque, a ciò che gli studiosi chiamano Big Five, cinque «grappoli», che racchiudono in sé una vasta gamma di possibili variabili: 
1) apertura: la tendenza a intraprendere attività, coltivare interessi, arricchire il proprio mondo interiore, evitando di chiudersi in se stessi; 
2) estroversione: la capacità di guardare fuori da se stessi, con una fiducia di fondo a quanto viene richiesto, affrontandolo con passione e interesse; 
3) coscienziosità: il desiderio di svolgere bene i compiti affidati — sia che si tratti del lavoro, sia di un incarico di responsabilità —, vivendoli con generosità e dedizione; 
4) gradevolezza: la predisposizione a prestare il proprio contributo per aiutare altri, mostrando interesse, ed essendo disposti anche a sacrificarsi per loro; 
5) stabilità affettiva: riguarda l’equilibrio interiore, l’umore e le sue eventuali variazioni di fronte alle molteplici situazioni possibili e agli imprevisti, la gestione dell’aggressività, la resilienza (cioè la capacità di affrontare le difficoltà in genere) 12. A un secondo livello, si trovano il mondo ideale del soggetto, i suoi progetti e desideri (per esempio, se il perdono è riconosciuto come un valore, o se, per il credente, è un elemento della sua relazione con Dio), la varietà di interessi, gli scopi della sua vita, i criteri con cui egli interpreta e affronta i problemi.  Il terzo livello è dato dalla rilettura della storia concreta della persona, riconoscendo ciò che l’ha caratterizzata, plasmata e modificata (o deformata) nel tempo: è quello che Paul Ricœur chiama «identità narrativa». Schematizzando, si può dire che il livello 1 è dato da ciò che uno ha ricevuto, il livello 2 da ciò che uno fa, e il livello 3 da ciò che uno va sviluppando di se stesso.

La dimensione cognitiva e gratuita del perdono

Questi aspetti, solitamente poco considerati, sono invece decisivi per avviare il processo del perdono, perché presuppongono la capacità di comprendere il mondo dell’offensore, la dinamica dell’avvenimento considerata dal punto di vista dell’altro. Non si tratta di giustificare o ritenere lecito quanto accaduto, e nemmeno di sminuirlo, ma di conoscere la prospettiva dell’altro, la sua storia personale, i sentimenti e vissuti interiori, giungendo a identificare le motivazioni che stanno alla base di quell’azione, specie se si tratta di qualcuno con cui si vive una relazione affettivamente intima. In questo, come ha osservato A. Cabral, l’atto di capire è già una modalità di perdono. Una corretta lettura dell’accaduto («corretta» nel senso di attenta alla complessità e alla diversità) diventa di indubbio aiuto a ricostruire un rapporto lacerato, riconoscendo il significato di quel gesto, come si può notare dalla testimonianza di questa donna nei confronti dell’adulterio compiuto dal marito: «Gli dissi che capivo perché egli sentiva di dover provare a se stesso di essere ancora attraente per un’altra donna e che sapevo che potevamo superare l’accaduto se avessimo capito perché era successo» 13. Il perdono coinvolge volontà, valutazione e affetto. Per questo rimane un atto libero, non può essere ridotto a una forma di convenienza o a un calcolo interessato. Esso non appartiene neppure alla sfera dell’obbligo, della norma, ma piuttosto, come direbbe Pascal, all’orizzonte dell’amore. Per cogliere la dimensione profonda di questo gesto è importante mettere in conto la categoria della gratuità, di qualcosa offerto liberamente. È una situazione simile alla dinamica propria della stima e del piacere, che si raggiungono quando non li si cerca direttamente: essi piuttosto si aggiungono in sovrappiù, quando si compie qualcosa perché ritenuta importante in se stessa 14. Risultati molto simili si sono notati anche a proposito dei benefìci ottenuti con il perdono. Quando il perdono viene offerto gratuitamente, considerandolo un gesto bello e importante in se stesso, si ottengono risultati più efficaci e duraturi nel tempo rispetto a chi lo mette in atto solo per raggiungere possibili vantaggi personali. Una ricerca compiuta su questo tema metteva a confronto due gruppi di persone che avevano intrapreso un cammino di perdono, suddivisi in base alla motivazione dichiarata. Coloro che cercavano nel perdono un modo di sentirsi meglio, notavano all’inizio un beneficio, ma superficiale e di breve durata, penalizzando la capacità stessa di perdonare, che risultava sempre più difficile. Coloro che invece avevano in vista anzitutto il bene dell’altro, si trovavano nella situazione contraria, di sperimentare all’inizio scarsi risultati, ma che tendevano a crescere nel tempo 15. «Gratuità» significa anche la consapevolezza che non necessariamente l’atteggiamento dell’offensore cambierà. Anche se il perdono è una forza potente per modificare una situazione, esso rimane a fondo perduto, sia per chi lo offre sia per chi è chiamato a riceverlo.

Esiste una predisposizione psicologica al perdono? 



Il perdono ha un aspetto temperamentale? La tendenza ad accordarlo dipende certamente, oltre che dai valori proclamati (il livello 2 visto sopra), anche dalla propria storia di vita e dalla personalità (livelli 1 e 3), in altre parole da come l’offesa viene percepita. Per questo, dal punto di vista psicologico, non ogni personalità è ugualmente aperta alla possibilità del perdono: chi, ad esempio, tende a essere possessivo e geloso, trova molto più difficile accordare questo gesto. In secondo luogo, ha una grande rilevanza la qualità delle relazioni vissute, specialmente nel corso dell’infanzia: «Se una madre ha la tendenza a perdonare, anche i figli mostrano la stessa inclinazione» 16. Se invece nell’ambiente familiare vige l’abitudine di coprire eventuali colpe e mancanze, o di giustificarle a oltranza per paura del castigo o per mancanza di fiducia e di affetto, risulta estremamente doloroso riconoscere di aver sbagliato, e quindi si ha l’impressione di non avere nulla da farsi perdonare. Non a caso gli stili di personalità tendenzialmente chiusi alla fiducia incontrano grosse difficoltà ad accogliere anche l’idea stessa di perdono, passando dalla negazione alla distruzione delle possibili situazioni di offesa. Nei paranoidi e narcisisti, ad esempio, la percezione della colpa viene negata, sostituita dal senso di vergogna, cioè da una valutazione negativa di sé: riconoscere di aver fatto qualcosa di negativo viene interpretato come una catastrofe globale in ordine alla propria stima. In tal modo l’accadimento cessa di essere un atto puntuale e assume il significato simbolico di conferma o smentita del valore dell’intera persona. Da qui la forte ansia, il rancore e il desiderio di vendetta suscitati a motivo di quanto subìto. Chiedere scusa o accordare il perdono in questa dinamica risulta molto difficile, perché richiederebbe di prendere contatto con il proprio vissuto affettivo, con la propria profonda sofferenza, con quella che Freud chiama «la ferita narcisista». Per questo, in sede educativa, è fondamentale soffermasi sull’accadimento specifico con i bambini, facendo notare che non loro, ma quella cosa è sbagliata, spiegandone le ragioni, invitandoli soprattutto a immaginare come dovrebbe sentirsi l’altro di fronte a quanto accaduto. E ciò allo scopo di comprendere che il male può essere riconosciuto, perché non toglie la fiducia e l’affetto delle persone care, favorendo gli atteggiamenti legati all’empatia e al senso di responsabilità. Anche nel contesto terapeutico si nota una grande differenza quando, anziché concentrarsi sull’offesa e sul danno ricevuti (che tendono ad accrescere la rabbia e il risentimento), si sceglie di trattare il tema del perdono, allentando la morsa del rancore. Il semplice fatto di parlarne consente di ridimensionare la sofferenza, aprendo al desiderio di coltivare relazioni, interessi e attività. Se è vero che perdonare non significa smettere di provare sentimenti negativi verso l’offensore, è anche vero che questo gesto facilita l’attivazione di atteggiamenti di benevolenza e di pacificazione nei suoi confronti. Un tale gesto inoltre stimola l’intelligenza emotiva, la quale a sua volta rafforza la capacità di perdonare 17. Sembra comunque che la decisione di perdonare conduca il soggetto a vivere con più forza e intensità la propria vita, sperimentando un senso di liberazione, al contrario del perdono negato, in cui la persona rimane prigioniera del risentimento, delle recriminazioni che assorbono tempo ed energia, occupando la mente senza trovare sollievo: «Sono proprio la serenità psicologica ed emozionale e il proprio stato di salute fisica che possono fare maggiormente le spese della nostra incapacità di perdonare. Vivere stabilmente dentro di sé sentimenti intensi d’ira, di rivendicazione e di ostilità non potrà non avere un impatto negativo sulla propria salute»18.

1. Cfr G. Cucci, «Il senso di colpa: zavorra inutile?», in Civ. Catt. 2014 IV 123-136; Id., «Il senso del peccato: analisi fenomenologica», ivi, 243-256. Per un approfondimento della tematica, cfr Id., P come perdono, Assisi (Pg), Cittadella, 2011.
2. Cfr Summa Theol., I, q. 1, a. 8, ad 2um.
3. «Quanto di inoffensivo c’è nel debole, la viltà stessa di cui è ricco, il suo starsene alla porta, il suo inevitabile dover attendere, qui si fa un buon nome, è “pazienza”, anzi è la virtù stessa; il non-potersi-vendicare diventa non-volersi-vendicare, forse addirittura perdono» (F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, Milano, Adelphi, 1984, I, n. 14, 36).
4. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 2001, 177 s.
5. Segnaliamo le ultime pubblicazioni comparse in lingua italiana: M. Hubaut, Il perdono. Dimensioni umane e spirituali, Bologna, Edb, 2013; B. Barcaccia - F. Mancini, Teoria clinica del perdono, Milano, Cortina, 2013; C. Mucci, Trauma e perdono. Una prospettiva psicoanalitica intergenerazionale, ivi, 2014; M. Recalcati, Non è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa, ivi, 2014.
6. D. Bonifazi - G. Tortorella (eds), Matrimonio e famiglia: quale futuro? Aspetti antropologici, Milano, Massimo, 2001, 231.
7. C. Regalia - G. Paleari, Perdonare, Bologna, il Mulino, 2008, 48.
8. Ivi, 28.
9. Cfr ivi.
10. D. Diodoro, «La rivincita del perdono», in Corriere Salute, 27 febbraio 2005.
11. Cfr M. McCullogh - E. Worthington - K. Rachal, «Interpersonal forgiving in close relationships», in Journal of Personality and Social Psychology 73 (1997) 321 s; R. Enright, «The moral development of forgiveness», in W. Kurtines - J. Gewirtz (eds), Handbook of moral behavior and development, vol. 1, Hillsdale, Erlbaum, 1991, 123; A. Gentilini - A. Arvalli - P. Terrin (eds), Memoria perdono ricostruzione. Analisi teoriche e applicazioni psicoterapeutiche, Bologna, Edb, 2010, 19.
12. Per una precisazione di questo punto fondamentale, cfr G. Cucci, «L’integrazione dell’aggressività», in Civ. Catt. 2012 IV 325-328.
13. G. Paleari - C. Regalia, «Il perdono nelle relazioni intime», in R. Rizzi (ed.), Itinerari del perdono. Dall’individuo al gruppo, dalla terapia alla patologia, dall’offerta alla domanda, Milano, Unicopli, 2010, 208.
14. Cfr G. Cucci, La forza dalla debolezza. Aspetti psicologici della vita spirituale, Roma, Adp, 20112 , 140-155. 15. Cfr E. Giusti - B. Corte, La terapia del per-dono: dal risentimento alla riconciliazione, Roma, Sovera, 2009, 19.
16. R. Rizzi, «Introduzione», in Id. (ed.), Itinerari del perdono, cit., 12.

17. Cfr N. Wade - D. Bailey - P. Shaffer, «Helping clients heal: Does forgiveness make a difference?», in Professional Psychology: Research and Practice 36 (2005) 634-641; E. Giusti - B. Corte, La terapia del perdono…, cit., 203; R. Rizzi «Il perdono come terapia», in Id. (ed.), Itinerari del perdono…, cit., 291. 18. A. Arvalli, «Sul perdonare, un cammino sempre difficile», in A. Gentilini - A. Arvalli - P. Terrin (eds), Memoria perdono ricostruzione…, cit., 21.

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