lunedì 20 ottobre 2014

Rischi del Vaticano III

Fede e Ragione? 

Ci va giù duro Giuliano Ferrara, che alla scuola di Benedetto aveva trovato nutrimento per la sua intelligenza. 


Il pastore dell’essere deve nutrire di spirito l’ascolto sinodale. Ma il facilismo è ambiguo, diffidare dell’intelligenza è ambiguo, la verità è affidata ai piccoli non agli stupidi. Rischi del Vaticano III
Ci siamo arrivati, e sarà una sorpresa (di cui non si accorgeranno) per i presunti illuministi che applaudono la chiesa del cristianesimo povero e sentimentale, questi ipocriti che traballano per gola tra l’infame di Voltaire e la sublimità del cuore. La chiesa in assemblea è invitata formalmente dal Papa (domenica in San Pietro) a diffidare dell’intelligenza, delle idee chiare e distinte. Il dibattito è ascolto, cioè non è dibattito. Lo spazio dello spirito, che a un’assemblea sinodale non si può negare, non si nutre delle proprie ineffabili ragioni e della dicibile ragione umana universale, direi cattolica. È spazio preclusivo della dialettica tra argomenti mentre si dice “aperto”, si manifesta nel segreto del cuore, ha qualcosa di magico e sciamanico, almeno per un piccolo razionalista come me. Il sinodo sulla famiglia, ha detto il Papa confermando la nostra vecchia diagnosi, e cioè che si è iniziato un Vaticano III di qualche sorta, durerà in realtà un anno.
I questionari hanno integrato lo spirito profetico, a iniziare da lì, dalle “abitudini dei cristiani”, come dicono i cardinali Kasper e Schönborn: i quali cristiani non si sposano più, se si sposano divorziano come tutti, e sul tributo agli ascendenti (i nonni), sulla filiazione, sulle modalità procreative, sul piacere e sui suoi significati, sulla domesticità della chiesa, sulla sacramentalità delle nozze, su tutto questo (sono cose che fanno ridere il radicale Bordin, ma lui ride radiofonicamente ormai su tutto, anche sul Califfo) vanno dove credono o dove credono di dover andare secondo le “due dittature del nostro tempo: la telecrazia e la demoscopia” (la definizione è nell’omelia per la morte di Paolo VI tenuta dal cardinale Ratzinger tanto tempo fa). Diffido di chi diffidi dell’intelligenza, con tutto il rispetto dovuto ai pastori dell’essere, che certo hanno altri doveri, ma tra questi non credo di dover computare l’appello all’ignoranza delle cose, per quanto misticamente l’ignoranza in questione possa essere “docta”, dotta. Il vangelo affida la verità ai piccoli, ma non agli stupidi, che il Cristo esorcizza, indemoniati come sono della loro balbuzie spirituale e mentale.
Nello slittamento verso il facile, si castigano i pastori della chiesa d’oggi. Perché “caricano sulle spalle della gente pesi insopportabili, che loro non muovono neppure con un dito”. Paolo VI, beatificato al termine del sinodo, e di cui si dice questo pontefice sia un seguace convinto, si espresse in modo meraviglioso sul cristianesimo facile, alla fine degli anni Sessanta in un’udienza generale del dopoconcilio. Disse che sì, il cristianesimo e la fede devono essere, come da scrittura, un giogo leggero, devono essere facili, ma che nella facilità risiede una radicale ambiguità: e tutto il magistero di quel grande consisteva (e per questo pagò con fiere incomprensioni, di cui sarà degno anche Benedetto XVI) nel discernimento, che è una forma dell’intelligenza, vocata al pari del cuore a capire quale sia la volontà di Dio, quale sia – se preferite – la verità delle cose. Ascoltare i fedeli, affidarsi per intero e senza riserva ecclesiastica o dottrinale o dogmatica al loro senso di fede; accompagnarli, seguirli, imitarli mentre li si consola e gli si offre la chiesa che vogliono, quella che lascia tutto com’è, senza conseguenze etiche né psicologiche: è un approdo che merita il dubbio intellettuale dei laici come noi mentre programmaticamente lo esclude per i tonsurati.
È in atto la stessa querelle dei gesuiti del Seicento contro i giansenisti, e contro il loro campione in poetica razionale che fu Blaise Pascal. I gesuiti dicevano che non si può imputare il male se il male non sia ben conosciuto per tale da chi pecca, e c’è una grande probabilità che il peccato non consapevole non sia peccato: sarà il buon pastore che giudica fingendo di non essere autorizzato a giudicare, e dunque legittima un cristianesimo anonimo (formula rahneriana), ché questo è il vero potere mondano della chiesa e del clero. La derisione di Pascal fu malinconica e tenera, satirica, scrisse testi degni di un Molière, precorritori, era infatti uno scienziato santo che avrebbe respinto il questionario se sollecitato a compilarlo, lo avrebbe giudicato l’altra faccia del formulario cui le monache del convento furono costrette ad aderire prima della rasatura al suolo del loro luogo di vita, di amore e di culto ad opera del re alleato della Compagnia. Non sono cose tanto complesse, e ci riguardano.
Ciu En Lai diceva che è ancora troppo presto per dare un giudizio sulla Rivoluzione francese, ma una cosa la sappiamo: il mondo non è certo eguale, tampoco fraterno, ma è ipoteticamente libero. L’uso di questa libertà della coscienza è insidiato dal pensiero corrente e uniforme. La chiesa e le chiese, cristiane e non cristiane, dovrebbero fare la differenza, complicare le cose con la misura di responsabilità e di scrutinio del vero e del buono che è loro proprio, costitutivamente. Vorrei capire se i padri, non solo i reverendi padri gesuiti che oggi hanno in mano la chiesa, ma tutti i padri sinodali, si rendano conto del peso che avrà la loro assemblea nata sotto il segno, al culmine rovesciato di due santissimi e laicissimi pontificati in alleanza tra fede e ragione, della diffidenza verso l’intelligere.

© FOGLIO QUOTIDIANO

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