martedì 12 marzo 2013

chiesa

Mi auguro la semina d’autunno, non l’impollinazione primaverile della chiesa

 


 

Che dire se certe cose ormai le dobbiamo trovare affermate con vigore dagli atei (sia pure devoti) come  Giuliano Ferrara? Così scrive su Il Foglio del 3 marzo:
Non credo nel mito della primavera vaticana, la primavera della chiesa cattolica e del papato. La chiesa deve seminare, come si fa in autunno, non farsi impollinare come un fiore d’aprile. I padroni dell’opinione pubblica internazionale, anche cattolica, esigono un nuovo abbraccio del mondo com’è. Andare incontro, inseguire il temperamento dei popoli e delle culture, essere abilmente mimetici, formalizzare nuove regole di vita della chiesa ricalcate sui criteri di giudizio del secolo, delle ondate della modernità dal XVI secolo in poi, abolire le vecchie regole, cancellare le vecchie fattezze. 
Se è così, tanto vale chiudere bottega. L’esperimento dell’impollinazione è stato già fatto, ha avuto una sua grandezza, era cosa ambiziosa, ma è fallito, e non è colpa della curia romana se il modo di trattare problemi antichi e nuovi della bottega religiosa risente di un intirizzimento dell’anima, non scalda più i cuori, non si costruisce su ragione e fede in quell’equilibrio sovrano tentato da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Ci sono già l’Onu e l’Unesco, c’è già la filosofia universalistica dei diritti umani, c’è la coscienza umanitaria, ci sono idoli e miti del contemporaneo come l’eguaglianza, la libertà, la fratellanza, c’è un’arietta perenne di luce primaverile che occlude ogni visuale del dolore, del peccato, della redenzione, del soprannaturale, della salvezza interiore e collettiva, della penitenza, della riconciliazione e della misericordia, e c’è un’idea realistica e mediocre della fede personale, intesa come un comportamento di vita, non come un’esperienza indicibile, una grazia lontana ed efficace a prescindere dalla coscienza, una misura di irrazionale dentro la razionalità e la bellezza anche esteriore della visione evangelica, dell’imitazione cristica, dell’affidamento a un Messia, a un Dio incarnato.
Il problema non sta nel consentire ai preti di sposarsi, consentitelo pure. Il problema è che, sposati o no, la carne resta il luogo agostiniano della concupiscenza, il dolce piacere dell’abbandono al momento, all’attimo, contro la fragranza immacolata dell’affidamento all’eterno. Se per governare il corpaccione della chiesa fosse necessario emanciparla dal riformismo di quel grandissimo Papa che fu s. Gregorio VII, come suggerisce Hans Küng, e dunque ci dovesse toccare un’assemblea discutidora di vescovi al posto del vicario di Cristo infallibile, un’elaborazione teologica sempre meno petrina, sempre meno romana, sempre più legata agli schemi di vita e di spiritualità di quell’etnia primitiva orante che solo le riforme di s. Paolo e di s. Agostino e di Costantino e dei Gregorio hanno trasformato in ecclesia, in popolo di Dio in cammino, in istituzione universale ricalcata sul modello laico e precristiano dell’Impero romano, sia pure, sia fatta la volontà del clero e del laicato e della teologia progressista. Ma alla fine del percorso avremmo un calco del già noto, un codice di morale kantiana piegato alle esigenze dell’edonismo piccino del tempo nostro, non l’apparizione della grazia, non un ritorno di Dio, qualunque cosa questo possa significare per credenti e non credenti. Spero che si vada alla radice, e che cominci la semina, dopo anni di impollinazione e rinuncia.

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