giovedì 14 febbraio 2013

il papa abdica

è l' eresia del conciliarismo che tenta di imporsi, spaventando il papa Benedetto ed i suoi successori:

una scommessa soprannaturale:

NON PRAEVALEBUNT!!!!!




Nota a firma di Pietro De Marco uscita il 12 febbraio sul supplemento fiorentino del “Corriere della Sera”, da me ripresa da Settimo cielo. Un'analisi di tutto rispetto, che merita diffusione e condivisione. Da tenere ben presente soprattutto per inquadrare nelle giuste coordinate i possibili riverberi di interpretazioni "moderniste" della drammatica abdicazione di Benedetto XVI, già ufficialmente esternate senza remore dall'arcivescovo di Parigi e da quello di Lisbona, il quale ha dichiarato :
  1. che il gesto del Papa è guidato dallo spirito del Vaticano II e 
  2. che si tratta di un passo in più nel "rinnovamento" della Chiesa promosso da quel Concilio, 
  3. che il carattere permanente del papato non è più intoccabile e 
  4. che è finito il contesto che lo considera un ufficio a vita. 
Sostanzialmente essi mettono sul papato, ridotto ad una funzione, un'ipoteca a nome del concilio Vaticano II, che non potrà che rafforzare il processo di auto-secolarizzazione imboccato dalla Chiesa, compresa la considerazione che se il Papa può dimettersi (e quindi viene rovesciata al vertice supremo una prassi secolare), diventa possibile che anche altre prassi secolari possano nello stesso modo essere rovesciate nella compagine ecclesiale, aprendo la strada ad ulteriori rivoluzionarie innovazioni. Occorrerebbe una brusca inversione di rotta...

Nella “complexio oppositorum” cattolica, ovvero nella coerente articolazione di opposti che caratterizza la Chiesa nella sua esistenza piena (umana e divina, individuale e sociale, istituzionale e carismatica, in terra e già in cielo), è contenuta anche la potestà del vescovo di Roma, figura rappresentativa del mistero della chiesa Corpo di Cristo e persona fisica titolare di un ministero di governo universale. Ministero “razionale”, perché ordinato come ogni autentico esercizio potestativo a degli effetti, valutabili nell’ordine dei fini di quel Corpo.
Certamente, il “bene della Chiesa” non è agevole da definire; è necessario capire cosa divengano istituzione e governo quando operano, sul crinale del naturale e del sovrannaturale, per i fini ultimi, la salvezza delle anime, come ricorda ancora, nella sua capacità di dire l’essenziale, il diritto canonico.
Ora la impressionante decisione di Benedetto XVI va intesa, a mio avviso, su questo crinale. Da un lato la memoria recente di un corpo carismatico, quello di Karol Wojtyla, portatore fino all’ultimo attimo (e oltre, fino alle esequie), di una autorità e di una grazia che sovrastano in guadagno soprannaturale ogni criterio di efficienza di governo. Dall’altro la previsione razionale – come intimamente razionale è la Chiesa cattolica – di dissesti nel governo centrale, in nome e in vece del papa malato.
Wojtyla optò, in coerenza con la sua geniale azione pubblica, per la forza evangelizzante del “corpo del papa”.
Joseph Ratzinger opta, in coerenza col suo affidamento all’agire discreto e riflesso, per l’esigenza di una integrità “naturale”, per l’integrità del papa, dunque per un successore. Il rischio di far mancare alla Chiesa i doni di grazia di un governo condotto sotto il segno della estinzione di  “vigore sia del corpo sia dell’animo”, non gli appare superiore a quello, razionalmente probabile,  di mettere a repentaglio la barca di Pietro.
Così, rispetto a Wojtyla, Ratzinger adotta un altro percorso nella “complexio” cattolica, un opposto giudizio su ciò che il momento mondiale ed ecclesiale richiede.

L’interpretazione “moderna” di questo atto, di certo meditato e preparato, è legittima, ma non considera da quanti secoli il diritto della Chiesa abbia riflettuto sulla figura del pontefice. Qui appare quanto la modernità occidentale debba alla Chiesa cattolica, non viceversa.

Ma l’interpretazione “moderna” contiene anche un pericolo, più interno alla Chiesa che esterno: concepire d’ora in poi la rinuncia all’ufficio come una nuova prassi che imponga  di fatto le dimissioni al pontefice malato o di “provecta aetas”, di età troppo avanzata.
Alla libera decisione, la sola validante l’atto e che esclude pentimento, una prassi del genere sostituirebbe un vincolo, spezzando la verità cattolica del duplice opposto percorso, il carismatico e il “razionale”, e privilegiando una concezione del pontefice moderna in senso deteriore, perché subalterna ad un canone di semplice efficienza amministrativa.
Questo, si badi, è fatto per piacere a chi desidera, entro e fuori la Chiesa, declassare il primato carismatico del vescovo di Roma a circoscritta funzione, e porlo sotto il giudizio di terzi, dai medici ai curiali ai vescovi. In sé, invece, cioè nei termini obbliganti del diritto divino, il giudizio di idoneità del suo vicario è solo di Cristo.
Benedetto XVI ha voluto provvedere all’effettività del pieno esercizio del primato,  non a un suo indebolimento. E anche lui ha affidato a una superiore protezione il bene della Chiesa, con un rischio simmetrico a quello che Wojtyla volle correre.
Dopo l’annuncio delle dimissioni ho ricevuto telefonate disorientate, direi angosciate; il papa ci lascia, in una situazione del mondo e della Chiesa drammatiche, situazione in cui egli era, nella peculiarità di Ratzinger, il punto di resistenza, insostituibile. L’azione potentemente correttiva, medicinale, di mezzo secolo di erramenti, era affidata alle decisioni del papa; ora passa nelle imponderabili mani del prossimo conclave e del futuro pontefice!
La posta in gioco, per quanto attiene al giudizio umano, è enorme. Penso questo: come il sovrano rischio di Giovanni Paolo II di governare la chiesa col suo essere sofferente ha ottenuto il miracolo di papa Benedetto, così quello, altrettanto radicale, di Benedetto di riconsegnare la Chiesa e la propria missione a Cristo perché ne dia il peso ad un vicario integro, otterrà un altro pontefice alla misura della storia.
Pietro De Marco

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