venerdì 12 agosto 2011

14 AGOSTO
800 MARTIRI DI OTRANTO


SECONDA LETTURA
Dai "Commenti sull'Apocalisse" di Pietro Colonna detto il Galatino, Presb. (Cod. Vat. Lat. 5567.foll. 147-14)
Riferirò poche cose viste con i miei occhi. Espugnata Otranto, città della Provincia di Calabria, detta anche Japigia o Salentina, i Turchi, appena v'entrarono irruppero con grande violenza nella Chiesa cattedrale e uccisero numerosi tra i sacerdoti che stavano celebrando il sacrificio eucaristico. E giunti vicino all'Arcivescovo che era sulla sua cattedra episcopale vestito dei paramenti pontificali e con in mano la croce (...), uno di loro, impugnata la scimitarra, gli staccò la testa con un solo colpo. E così decapitato sulla propria cattedra, diventò martire di Cristo, nell'anno del Signore 1480, il giorno 12 di agosto.
Al terzo giorno, il comandante dell'esercito, che i Turchi chiamano "Pascià", ordinò che tutti i cristiani di sesso maschile, qualunque età essi avessero al di sopra dei quindici anni, fossero portati al suo cospetto, in una località chiamata "Campo di Minerva", distante circa un miglio dalla città, dove egli era ancora attendato.
Ed essendo stata condotta dinanzi a lui una moltitudine quasi innumerevole di cristiani, fece rivolgere loro (dall'interprete) la domanda per quale delle due scelte essi volessero optare: o rinnegare la fede in Gesù Cristo, o morire di morte atroce.
Ed uno di essi, che gli era più vicino, rispose "Scegliamo piuttosto di morire per Cristo con qualsiasi genere di morte, anziché rinnegarlo". E poiché uno soltanto aveva risposto, il Pascià fece interrogare gli altri su che cosa scegliessero. Ed essi subito gridarono in coro: "In nome di tutti ha risposto uno solo: siamo pronti a subire qualsiasi morte anziché abbandonare Cristo e la fede in Lui". E si sentì un mormorio tra di loro per lo spazio di circa un'ora, mentre si esortavano a vicenda e dicevano: "Moriamo per Gesù Cristo, tutti moriamo volentieri, per non rinnegare la sua santa fede". Allora il Pascià, stravolto dall'ira, comandò che tutti, sotto i suoi occhi, fossero passati a fil di spada. E, mentre venivano trucidati con varie forme di efferatezza, quelli che attendevano il loro turno, si incoraggiavano scambievolmente ad affrontare una morte così gloriosa: scambiandosi il bacio di pace, si chiedevano a vicenda perdono delle offese.
Dopo che tutti furono uccisi, il Pascià, abbandonati i cadaveri di quei santi in quel medesimo luogo, in preda agli uccelli e alle bestie, rientrò con gli altri turchi in Otranto (...).
Di questi, dunque, e di tutti gli altri martiri, che dovevano essere trucidati sia dai turchi che dagli altri maomettani, nel quinto periodo della Chiesa, parla il diletto discepolo di Cristo nelle parole citate: (Cfr. Ap 6, 9) che devono, perciò, così interpretarsi: "Vidi sotto l'altare", cioè sotto la protezione e l'intima unione con Cristo. Cristo è, infatti, nello stesso tempo, nostro altare, sacerdote e sacrificio: Egli offrì se stesso sull'altare della croce, come vittima preziosa della nostra redenzione. È Egli stesso l'altare di Dio, poiché su di Lui noi offriamo a Dio Padre i nostri doni e sacrifici. Per questo motivo, quasi tutte le preghiere che la Chiesa fa, suole concludere con le parole "per Cristo nostro Signore".
"Le anime di coloro che erano stati sgozzati", cioè di quei martiri che, nel quinto periodo della Chiesa, dovevano essere uccisi. "A motivo della Parola di Dio", cioè a motivo del comando divino: per osservare il quale con decisione e fortezza, essi scelsero di essere uccisi per Cristo, piuttosto che rinnegare la fede in Lui.

Oppure Dall' Omelia di Giovanni Paolo II, papa (Otranto, 5 ottobre 1980)
Ci ha fatto venire oggi qui ad Otranto il ricordo dei martiri. Ci ha fatto venire qui la venerazione verso il martirio, sul quale, sin dall'inizio, si costruisce il regno di Dio, proclamato ed iniziato nella storia umana da Gesù Cristo.
La verità sul martirio ha nel Vangelo un'eloquenza piena di penetrante profondità ed insieme di trasparente semplicità. Cristo non promette ai suoi discepoli successi terreni o prosperità materiale; egli non presenta davanti ai loro occhi alcuna ''utopìa", come è capitato più di una volta e come capita sempre nella storia delle ideologie umane. Egli semplicemente dice ai suoi discepoli: "vi perseguiteranno". Vi consegneranno agli organi delle diverse autorità, vi metteranno in prigione, vi chiameranno davanti ai diversi tribunali. Tutto ciò "a causa del mio nome" (Lc 21,12).
La sostanza del martirio è legata, dall'inizio e nel corso di tutti i secoli, con questo nome! Noi qualifichiamo come martiri quei cristiani che, nel corso della storia, hanno subito sofferenze, spesso terrificanti, per la loro crudeltà "in odium fidei". Coloro ai quali "in odium fidei" veniva infine inflitta la morte. Quindi coloro che accettando, in questo mondo, le sofferenze e subendo la morte hanno reso una particolare testimonianza a Cristo.
Mettendo davanti agli occhi dei suoi discepoli l'immagine delle sofferenze che li aspettano a causa del suo nome, il maestro dice: "Questo vi darà occasione di render testimonianza" (Lc 1,13).
Cinquecento anni fa qui, ad Otranto, 800 discepoli di Cristo hanno reso appunto una tale testimonianza, accettando la morte per il nome di Cristo. Ad essi si riferiscono le parole che il Signore Gesù ha pronunciato sul martirio: "Sarete odiati da tutti per causa del mio nome" (Lc 21,17). Sì, sono stati oggetto d'odio. Hanno bevuto per il nome di Cristo il calice di quest'odio fino in fondo, a somiglianzà del loro maestro, il quale dalla cena pasquale si recò direttamente al Getsernani e lì pregava: "Padre, se vuoi, allontana da me questo calice" (Lc 22,42). Tuttavia il calice dell'odio umano, della crudeltà e della croce non si è allontanato. Cristo, obbediente al Padre, l'ha vuotato fino in fondo: "Non sia fatta la mia, ma la tua volontà" (Lc 22,42).
La testimonianza del Getsernani e della croce è un sigillo definitivo, impresso su tutto ciò che Gesù ha fatto e insegnato. Egli, accettando la morte, ha dato la propria vita per la salvezza del mondo. I martiri di Otranto, accettando la morte, hanno dato la loro vita per Cristo. E in queslo modo hanno reso una particolare testimonianza a Cristo.
La testimonianza dei martiri li introduce in modo particolare anche nel suo mistero pasquale. "Con la vostra perseveranza - dice Gesù - salverete le vostre anime" (Lc 21,19). Come egli stesso conquistò la nuova vita, accettando la morte, così i martiri accettando la morte, conquistano la vita, a cui Cristo ha dato inizio nella sua risurrezione.
"Quella" vita: la vita nuova e piena smentisce, in certo senso, l'esperienza della morte. Smentisce soprattutto la certezza di coloro che, infliggendo la morte, ritenevano di aver tolto la vita ai martiri, di averli privati della vita e di averli strappati in maniera definitiva dalla terra dei viventi.
"Agli occhi degli stolti parve che morissero; / la loro fine fu ritenuta una sciagura, / la loro dipartita da noi una rovina.
Così proclamava l'autore del libro della Sapienza (Sap 3.2-3) già molto tempo prima che Cristo pronunciasse le sue parole sul martirio.
"...ma essi sono nella pace" (Sap 3.3). Ma essi sono nella pace!
Nell'atto del martirio ha quindi luogo una radicale, per così dire, contrapposizione dei criteri e dei fondamenti stessi del pensare. La morte umana dei martiri, la morte legata alla sofferenza e al tormento - così come la morte di Cristo sulla croce - cede, in un certo senso, dinanzi ad un'altra realtà superiore. L'autore del libro della Sapienza scrive:
"Le anime dei giusti... sono nelle mani di Dio / nessun tormento le toccherà" (Sap 3.1).
Quest'altra realtà superiore non annulla il fatto del tormento e della morte, così come non annullò il fatto della passione e della morte di Cristo. Essa, la "mano'" invisibile di Dio trasforma soltanto questo fatto umano. Lo trasforma già perfino nella sua trama terrestre, mediante la potenza della fede che si rivela nelle anime dei martiri dinanzi al tormento ed alla sofferenza:
"Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità" (Sap 3,4).
La forza di questa fede e la forza della speranza che proviene da Dio sono più potenti del castigo e della morte stessa. I martiri rendono testimonianza a Cristo proprio per questa forza della fede e della speranza. Essi, difatti, simili a Lui nella passione e nella morte, proclamano contemporaneamente la potenza della sua risurrezione. Basta ricordare qui come moriva il primo martire di Cristo, il diacono Stefano; egli si spense gridando: "Ecco io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell'uomo che sta alla destra di Dio" (At 7,56).
Così dunque, grazie alla forza della fede ed alla potenza della speranza, cambiano in un certo senso le proporzioni: le proporzioni della vita e della morte, della sconfitta e della vittoria, dello spogliamento e dell'elevazione. L'autore del libro della Sapienza scrive in seguito:
''In cambio d'una breve pena / riceveranno grandi benefici, / perché Dio li ha provati / e li ha trovati degni di sé" (Sap 3,5).
Qui tocchiamo un punto particolarmente importante nel fatto del martirio. Il martirio è una grande prova, in un certo senso è la prova definitiva e radicale. È la più grande prova dell'uomo, la prova della dignità dell'uomo al cospetto di Dio stesso. È difficile dire a questo proposito più di quanto afferma proprio il libro della Sapienza: "Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé" (Sap 3,5). Non esiste una misura più grande della dignità dell'uomo di quella che si trova in Dio stesso: negli occhi di Dio. Il martirio è dunque "la" prova dell'uomo che ha luogo agli occhi di Dio, una prova nella quale l'uomo, aiutato dalla potenza di Dio, riporta la vittoria.

Mentre combattiamo per la fede, Dio ci guarda, Cristo e i suoi angeli assistono:
* moriamo per Cristo tutti, moriamo volentieri per non rinnegare la sua fede.
È onore e gioia per noi lottare sotto lo sguardo di Dio,
ricevere il premio da Cristo giudice.
Moriamo per Cristo tutti, moriamo volentieri per non rinnegare la sua fede.

ORAZIONE Dio onnipotente e misericordioso, guarda il tuo popolo che celebra la solennità dei Beati Antonio Primaldo e Compagni, e, per loro intercessione, concedi anche a noi di essere forti nel testimoniare la fede cristiana. Per il nostro Signore Gesù Cristo.

Franco CARDINI
I martiri di Otranto tratto da: Il Sabato, 21.8.1993, n. 34, p. 47s .

Venezia voleva frenare il potere degli Aragonesi. Lorenzo il Magnifico doveva saldare il debito per la consegna di un responsabile della congiura dei Pazzi. Così il sultano ebbe via libera alla conquista di Otranto. Un tacito patto che costò la vita a 800 cristiani. Decapitati sulla collina dei martiri Il 28 luglio 1480 la città di Otranto veniva assalita da una flotta turca comandata dal grande ammiraglio dell'impero ottomano Gedik Ahmed Pascià. La guarnigione aragonese che custodiva la città si ritirò o non poté comunque fronteggiare l'ondata turca; e l'11 agosto le milizie musulmane poterono pertanto accedere liberamente allo spazio intramurario di Otranto, ch'era stato fin lì praticamente difeso dai soli cittadini. Per tre giorni il massacro indiscriminato infierì: cadde, fra gli altri, anche il vescovo Stefano Pendinelli, ucciso nella sua stessa cattedrale, quella che è celebre per uno dei mosaici pavimentali più belli di tutto il nostro Medioevo .

Il 14 agosto Ahmed Pascià ordinò di rastrellare tutti i superstiti di sesso maschile e d'età superiore ai quindici anni. Erano circa ottocento: fu loro proposta la scelta tra l'apostasia e la decapitazione. Rispose per tutti, secondo la tradizione, il vecchio cimatore di lana Antonio Primaldo: «Fin qui ci siamo battuti per la patria e per salvare i nostri beni e la vita: ora bisogna battersi per Gesù Cristo e per salvare i nostri beni e le nostre anime». Allora, a gruppi di cinquanta, i prigionieri furono portati sulla collina detta "di Minerva", presso la città -quella che oggi è detta "collina dei Martiri"- e vennero decapitati. I loro corpi furono lasciati insepolti per un anno fino al 15 agosto del 1481, allorché, riconquistata la città dai cristiani, si poté degnamente onorare i loro resti. I "martiri di Otranto" furono beatificati in blocco nel 1771 e santificati nel 1983 .

La fede coranica distingue con chiarezza tra i "pagani" e i "popoli del Libro", vale a dire gli ebrei e i cristiani, i quali hanno ricevuto la rivelazione attraverso una Sacra Scrittura e conoscono il vero Dio. Se per i pagani non può esservi quartiere, è per contro severamente vietato obbligare con la forza alla conversione ebrei e cristiani; l'alternativa tra la conversione e la morte è riservata ai soli pagani, nei confronti dei quali l'islam conosce esclusivamente un rapporto di guerra. Ma gli ebrei e i cristiani possono accedere liberamente e con le loro forze al perfezionamento della loro fede accettando l'islam; ove non vogliano farlo, è sufficiente, per vivere in pace, che ne accettino la supremazia.
Ahmed Pascià, per zelo o per altre ragioni, infranse pertanto la legge coranica trattando dei cristiani come se fossero stati dei pagani. Episodi del genere, pur essendo relativamente scarsi, non sono sconosciuti alla storia dell'islam: si pensi alle persecuzioni ai danni dei cristiani nella Spagna meridionale del IX secolo, alle conversioni forzate dei cristiani berberi, a pagine di duri maltrattamenti scritte in Persia e in India.

La vera caduta dell'Impero
Del resto, anche il cristianesimo conosce episodi del tutto analoghi: dalla prima crociata del 1096-1099 alla Reconquista spagnola, casi di musulmani costretti con la forza al battesimo sono numerosi. Del resto è noto che i turchi, giunti relativamente tardi alla fede musulmana, erano animati da senso rigoristico più forte dei loro correligionari arabi e ciò li esponeva più frequentemente al pericolo di eccessi. Ma fu soltanto una pietas fanatica, o magari una certa mancanza di energia nei confronti dei più violenti fra i suoi uomini, a indurre l'ammiraglio ottomano allo spaventoso massacro del 1480? .

Nel maggio 1453 si era verificato, per via dei turchi ottomani e del loro sultano Maometto II, un avvenimento di portata mondiale: la caduta dell'impero romano, che gli occidentali sono abituati ad antidatare, senza ragione, di un millennio. Quel che difatti noi chiamiamo "impero bizantino" altro non era -senza apprezzabili soluzioni di continuità- se non la pars Orientis dell'impero romano ridefinita dalla riforma teodosiana del 395.
La caduta di Costantinopoli nel 1453 pose fine a quella storia ultramillenaria e gettò il mondo cristiano in una prostrazione profonda, solcata da paurosi lampi apocalittici. Numerose profezie, che avevano attraversato tutto il Medioevo e che ora tornavano più drammatiche, associavano la caduta della nuova Roma all'avvento dell'Anticristo e alla fine dei tempi. Questo dichiarava la bolla per la crociata emanata il 30 settembre del 1453 da papa Niccolò V che chiamava i principi e i popoli cristiani alla difesa della loro civiltà: Maometto II era prefigura dell'Anticristo, il dragone rosso dell'Apocalisse. La guerra dei Cento anni tra Francia e Inghilterra, che ormai languiva allo stato endemico, si chiuse precipitosamente dinanzi al nuovo pericolo; e in Italia con la "pace di Lodi" del 1454 si aprì il periodo del cosiddetto "equilibrio", più tardi tanto lodato dal Guicciardini proprio perché si temeva che il Turco potesse davvero sbarcare in Italia .

L'alibi turco
E non erano preoccupazioni infondate: la nuova potenza ottomana, che con Costantinopoli controllava ora anche gli stretti, minacciava gli interessi veneziani e genovesi tra mar Nero e mar Egeo, mettendo fra l'altro in forse il rifornimento granario, dal momento che l'Europa importava frumento dalla Crimea; l'avanzata turca interessava gran parte dei Balcani e l'ombra della mezzaluna si proiettava minacciosa sull'Adriatico, giungendo a lambire Vienna e Venezia; le coste del regno aragonese di Napoli si trovavano soggette alle incursioni corsare e in costante rischio di venire invase.
La cristianità occidentale, in tali frangenti, si accorse dolorosamente che il troppo presto liquidato ecumenismo politico aveva pur lasciato un vuoto: con un Sacro Romano Impero ridotto ormai a una larva tedeschizzata, lo stesso indiretto potere del papato -sotto forma, quanto meno, di auctoritas- risultava dimezzato: il Pontefice, ora non poteva che ambire al ruolo quasi simbolico di una qualche (diciamo così) presidenza della "lega" dei principi e dei popoli cristiani d'Europa, riunita per battere il pericolo turco. Fu quanto s'impegnarono a fare, con differente energia, pontefici quali Niccolò V stesso, Callisto III, Pio II. Paolo II, Sisto IV cercando disperatamente di metter d'accordo le divergenti idee e i differenti interessi della repubblica di San Marco, del re di Napoli, del re d'Ungheria e di altre potenze: perché, intanto, si era capito molto bene che i turchi erano sì un pericolo, ma potevano essere anche uno splendido alibi politico per indurre gli stati cristiani ad accettare questa o quella linea, favorevole a questa o a quella potenza. Tali cose, nelle cancellerie d'Europa le sapevano tutti anche se non le diceva nessuno. E le sapeva molto bene anche il sultano, il quale era abituato a ricevere amichevoli ambascerie da parte di quelle potenze cristiane che poi si sbracciavano in magniloquenti intenzioni crociate.

Il gioco del sultano
La crociata nell'Europa del secondo Quattrocento era come l'antifascismo nell'Europa del secondo Novecento: tutti ne parlavano, tutti erano d'accordo, ciascuno cercava di farla coincidere con i propri interessi e di accusare gli altri di non servire con altrettanta energia tale nobile ideale, nessuno o quasi ci credeva sul serio e quasi tutti erano pronti a tradirla alla prima redditizia occasione. In fondo, che Venezia fosse minacciata dal Turco non dispiaceva affatto né al re di Napoli, né al duca di Milano; e il re di Francia non chiedeva di meglio che gli ottomani se la prendessero con gli interessi oltremarini di Genova in modo da poter esser pronto a difendere il prestigioso porto ligure che da decenni ambiva -in contrasto con il duca di Milano- a sottomettere.
Con tali premesse, e in un tale contesto, era chiaro che alternando sapientemente la guerra alla diplomazia il sultano poteva tranquillamente giocare le potenze cristiane: ed è quanto fece. Peraltro, Maometto II era un politico troppo realista e intelligente per puntare davvero a conquistare l'Europa e a sottomettere all'islam i popoli cristiani. Gli conveniva però che così si temesse, o si fingesse di temere. Il pericolo, ad ogni modo, era costante e reale. Fermati per miracolo davanti a Belgrado nel 1456, gli ottomani alternavano la minaccia navale attraverso l'Egeo, lo Ionio e l'Adriatico, a quella terrestre lungo la via del Danubio. Nel 1469 c'erano state incursioni in Carniola, Stiria e Carinzia, destinate a diventar periodiche: nel 1470 i turchi avevano occupato l'isola veneziana di Negroponte; nel '77 e nel '78 le loro incursioni avevano toccato il Friuli. La pressione era così forte che i veneziani, i quali da circa un quindicennio erano in guerra aperta con il sultano sobbarcandosi quasi da soli il compito di aiutare gli ungheresi di Mattia Corvino -sostenuto peraltro nella sua guerra anche dal danaro della Curia pontificia- e gli albanesi che comunque, da ormai un decennio, erano privi della guida del loro eroe Scander Beg, alla fine chiesero e ottennero dal sultano una pace, siglata appunto nel 1479. Ma la lunga guerra non era forse il solo motivo per il quale la Serenissima intendeva chiudere almeno temporaneamente il fronte ottomano .

Il feeling con Lorenzo
Fra '80 e '81, parve che il dominio turco di Otranto stesse per divenire, nelle intenzioni del sultano e di Ahmed Pascià, la base per un'enclave ottomana nelle Puglie che, se avesse retto, avrebbe significato il controllo della mezzaluna sul canale tra Jonio e Adriatico: furono compiute scorrerie anche su Brindisi, Lecce e Taranto. Ma Venezia, signora dell'Adriatico e avversaria tenace del re di Napoli e dei suoi progetti egemonici sulla penisola italica, non poteva restar indifferente dinanzi a chi controllasse il canale d'Otranto: doveva allearvisi o combatterlo. Ebbene, fonti insospettabili perché veneziane, ci assicurano che il "bailo" veneziano a Costantinopoli, Andrea Gritti, fu incaricato di far sapere al sultano, da parte dei suo governo, che egli poteva a buon diritto impadronirsi della Puglia in quanto tali territori appartenevano d'antico diritto al territorio di Bisanzio del quale egli era signore .
Né Venezia era la sola potenza d'Italia a strizzar l'occhio al Turco. Tra Maometto II e la Firenze del Magnifico Lorenzo correva da tempo un discreto feeling: artisti fiorentini erano stati inviati a Istanbul, il sultano aveva impacchettato cortesemente uno dei congiurati antimedicei di quelli che il 26 aprile del 1478 avevano attentato a Lorenzo, nella celebre "congiura dei Pazzi", -si trattava di Bernardo Bandini- e lo aveva spedito a Firenze perché vi fosse giustiziato, e infine il Magnifico aveva impegnato certi suoi incisori nel conio di medaglie commemorative che esaltavano le vittorie del Gran signore in Asia .

Il disegno del Papa
E nasce allora il sospetto che, per capire perché dell'assalto a Otranto non si debba guardare ai progetti del sultano, ma alle tensioni e ai giochi diplomatici delle corti d'Italia. La volontà egemonica del re d Napoli sulla penisola e il conflitto veneziano-aragonese per l'egemonia sull'Adriatico sono, forse, la chiave di tutto. E l'elemento scatenante è probabilmente l'episodio della "congiura dei Pazzi" a Firenze. Ma procediamo con ordine .

I fatti sono ben noti, anche sui manuali scolastici. Da tempo la Toscana era una delle aree "calde" della politica italiana basata sull'incerto equilibrio di guicciardiniana memoria (un equilibrio in realtà europeo del quale la paura dei turchi era un ingrediente). Ferdinando I d'Aragona, re di Napoli, appoggiava con decisione la politica antifiorentina dei senesi e dei fuorusciti antimedicei; e papa Sisto IV aveva concepito il disegno di appoggiarsi agli avversari del Magnifico ancor presenti nell'aristocrazia fiorentina per scalzare il potere dei Medici e trovare così nella città toscana una signoria per il nipote Gerolamo Riario: il quale a sua volta odiava Lorenzo in quanto egli si era opposto tenacemente all'insediarsi di una sua signoria in Imola.
La congiura dei Pazzi fallì, ma il Papa -cogliendo l'occasione dal fatto che, nella repressione di essa, erano stati giustiziati anche alcuni membri del clero- scomunicò il Magnifico, gettò l'interdetto su Firenze e suscitò contro di essa una lega con il re di Napoli, la repubblica di Siena e Federico da Montefeltro che fu nominato comandante delle truppe alleate .
Firenze aveva dalla sua Venezia e Milano, le due antiche e tenaci avversarie che si erano riavvicinate tra loro per fronteggiare il pericoloso espansionismo napoletano. Il re di Francia, tradizionale sostenitore di casa Medici, fece sapere al Papa che dal suo paese non sarebbe più partito un soldo alla volta della Camera apostolica finché il Pontefice si fosse ostinato a far guerra ai cristiani anziché ai turchi era un ottimo alibi per risparmiar danaro con la scusa dell'unità tra i fedeli e della crociata. Ma i milanesi erano troppo occupati in questioni di politica interna e i veneziani ancora impegnati nella guerra contro i turchi. Rimasto praticamente solo, Lorenzo, accusato intanto dal Papa di ostacolare con la sua superbia un'azione unitaria dei cristiani contro i turchi (ancora il pretesto della crociata...), non poteva fidarsi neppure del comandante delle sue poche milizie, il duca di Ferrara Ercole d'Este, ch'era genero di Ferdinando di Napoli.
La guerra in Toscana andava male: e Venezia, pur avendo fatto pace con i turchi fin dal gennaio 1479, non dava mostra di voler entrare apertamente nello scontro. Il nuovo signore di Milano. Ludovico il Moro, non faceva intendere da che parte volesse sul serio schierarsi, e in realtà non voleva farlo. E' concorde visione degli storici che in tale frangente Lorenzo abbia genialmente rotto l'accerchiamento che ormai rischiava di sopraffarlo ricorrendo ai mezzi diplomatici e mostrando a Ferdinando I che egli non aveva alcun interesse e legarsi troppo alla politica personalistica di Sisto IV, che con ogni probabilità il Pontefice successivo avrebbe abbandonato.

Congiuntura favorevole
Al patto di pace tra Firenze e Napoli, siglato il 25 marzo 1480, corrispose tuttavia un passo d'avvicinamento della Serenissima al Papa: sulle rive del Canal Grande non si poteva che avversare chiunque per qualunque motivo tendesse una mano al re di Napoli. Neppure il re di Francia - che si era arrogato su Napoli i vecchi diritti angioini- gradì la mossa filoaragonese di Lorenzo.
E' chiaro che il sultano approfittò di questo momento per affermare con maggior forza la sua egemonia sull'Egeo, sullo Ionio e sui Balcani. E' possibile che già da Firenze, tra '78 e '80 gli fossero pervenute sollecitazioni in tale senso; e Venezia, una volta siglata nel gennaio '79 la pace con lui, lo istigava come s'è visto a far valere i suoi diritti di erede di Bisanzio sull'Italia meridionale. L'occasione anche diplomatica di agire gli fu offerta ben presto, allorché Ferdinando di Napoli, nella primavera dell'80, fece pervenire alcuni aiuti ai cavalieri di Rodi assediati dai turchi. Per ritorsione il sultano aveva fatto occupare Valona da Ahmed Pascià e aveva dato il via all'impresa di Otranto mentre le galee veneziane, presenti nelle vicinanze del canale, si ritiravano a Corfù (ma corse voce addirittura che
appoggiassero i turchi rifornendoli di viveri).

Il fantasma della crociata
D'altro canto, il sultano sapeva bene che la sua mossa avrebbe dato luogo a una sorta di riflesso condizionato: la vecchia, pretestuosa idea di crociata funzionava ancora in questi casi. L'ombra della mezzaluna proiettata su una terra cristiana, la Puglia, determinò la pacificazione dei principi fedeli alla croce: i napoletano-pontifici sgombrarono le terre della Toscana meridionale sulle quali si erano attestati, il Papa si affrettò a far la pace con Firenze, Venezia e il re di Francia finsero di porre da canto le rispettive animosità nei confronti del re di Napoli. Umanisti e predicatori si dettero con ardore a invocare la crociata. La repentina e inattesa scomparsa del sultano, il 31 maggio 1481, e le lotte per il potere tra i di lui figli Bajazet e Djem che le tennero dietro, facilitarono la riconquista. Fu così che il 10 settembre 1481 Alfonso di Calabria, figlio del re di Napoli, entrava trionfalmente in Otranto, martire ma liberata. A Otranto nel 1480 come a Vienna nel 1526 e nel 1683, i turchi giocarono il ruolo del deus ex machina. Il loro violento irrompere sulla scena europea risolveva una situazione di stallo: l'appello alla crociata, alla defensio crucis, alla liberatio Europae -un appello, intendiamoci, sovente sinceramente lanciato e generosamente accolto -, serviva regolarmente alla soluzione di conflitti interni al mondo cristiano. I turchi assolvevano alla funzione dell'hostes come elemento risolutore delle inimicizie interne e catalizzatore di quella che Carl Schmitt ha definito l'"esportazione della violenza". Paradossalmente ma non troppo, la minaccia turca si rivelava come un fattore di coesione e di determinazione dell'identità europea. Questo del resto è il senso intimo e ultimo della stessa esperienza crociata, che - grazie a Dio - non è mai stata una guerra di religione.

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